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Toti come Mimmo Lucano: quando le intercettazioni servono al processo politico

Rita Cavallaro
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Il sistema Toti e il modello Riace, due storie diverse ma un comune denominatore: l'abuso delle intercettazioni come chiave di volta per colpire i politici. C'è il governatore della Liguria, Giovanni Toti, non ancora a processo ma già condannato da un trojan spione, per aver fatto la profumiera con imprenditori che inviavano finanziamenti al partito come erogazioni liberali, in conformità di legge. Pagamenti regolarmente dichiarati dallo stesso Comitato elettorale di Toti seppure, per l'accusa, quel denaro sarebbe un do ut des perché il trojan, in oltre 27mila ore di registrazione, dice che il presidente della Regione avrebbe ottenuto il denaro a fronte di favori, per delibere firmate da altri funzionari, non indagati. In pratica, nelle intercettazioni Toti si sarebbe speso troppo, sicuramente a parole. Un copione già visto, quello delle inchieste dialettiche. Il caso più eclatante è quello del sindaco amato da tutta Riace, Mimmo Lucano, candidato alle Europee con Avs ma finito nel tritacarne delle intercettazioni, sulla base delle quali il Tribunale di Locri gli aveva inflitto una condanna esemplare: 13 anni e due mesi. E non per corruzione «ideologica», ma per una sfilza di reati nella gestione dei progetti di accoglienza dei migranti, che andavano dall'associazione per delinquere alla truffa, dal peculato al falso, fino all'abuso d’ufficio. Va detto che Lucano qualche atto delicato, se non altro, lo aveva firmato, mosso dall'ideale della vera accoglienza. Di fronte alla mole di prove portate in primo grado, il Tribunale ha ritenuto che Lucano fosse un criminale perché, si legge nella sentenza di condanna del 17 dicembre 2021, «il tutto è comprovato da inequivocabili intercettazioni ambientali, spesso videoregistrate e di natura autoaccusatoria». Tanto inequivocabili che, lo scorso ottobre, l'ex sindaco di Riace è stato assolto in appello dalle accuse, prime tra tutte quelle che poggiavano sulle captazioni, mentre è rimasto in piedi solo il falso, reato che è costato a Lucano una condanna a diciotto mesi di reclusione, con pena sospesa.

 

 

Una storia incredibile, ma ancora più stupefacenti sono le motivazioni della sentenza, che prende la forma di un vero e proprio monito contro l'abuso delle intercettazioni. Il dispositivo della Corte d'appello di Reggio Calabria, depositato un mese fa, contiene infatti un avvertimento a tutti i magistrati di non basare le loro inchieste soltanto sulle intercettazioni, che si prestano a diverse interpretazioni e possono perfino contenere errori nelle trascrizioni, tali da modificarne il significato. Tra le 300 pagine dell'assoluzione, i giudici riportano la circostanza più emblematica: una conversazione tra l'allora sindaco e Fernando Capone, presidente dell'associazione Città Futura, solo su carta, perché secondo le accuse, infondate, il vero dominus del sodalizio era proprio Lucano, il cui unico scopo era il consenso politico. Nell'intercettazione il primo cittadino avrebbe suggerito le false dichiarazioni da rendere sulle spese effettuate: «(Gli diciamo, ndr): facciamo una cosa che serve per l’integrazione e serve per tutti. È per i rifugiati, gli devi dire». Il perito della difesa ha invece dimostrato che «gli diciamo» e «gli devi dire», trascritti dagli inquirenti, non sono mai stati pronunciati nella registrazione, eppure sono stati aggiunti agli atti, dati in pasto all'opinione pubblica che non può ascoltare i nastri. Per i giudici d'appello, non risultano proprio quelle espressioni «valorizzate dal tribunale nel ritenere che i due stessero approntando una precostituita linea difensiva per eludere le proprie responsabilità», si legge.

 

 

Senza contare che, in diversi reati che hanno concorso nella condanna, «la prova sia costituita in modo preponderante, se non totalizzante, dagli esiti dell’attività tecnica di intercettazione» e che «l’utilizzabilità delle intercettazioni disposte per altro reato è pur sempre subordinata alla condizione che il nuovo reato sia a sua volta autorizzabile venendo in rilievo un limite imposto dalla legge e non certo oggetto di "creazione giurisprudenziale"». Insomma, i giudici bacchettano quei magistrati che, per procedere con le intercettazioni, configurano reati più gravi, come il filone della mafia in Liguria, e poi fanno entrare quegli stessi dialoghi in contestazioni più lievi, per le quali le intercettazioni non avrebbero potuto essere autorizzate. Una sorta di pesca a strascico, che ha portato ai domiciliari Lucano, in una gogna durata anni. E che pare ripetersi con Toti.

 

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