Pd, scatta la corsa a cinque per togliere la poltrona a Schlein
Non si può neanche scrivere «c’eravamo tanto amati», per dire che il sentimento tra il Pd e la sua segretaria non è mai realmente sbocciato. Troppo estranea ed incomprensibile lei, troppo complicato il Pd, una giungla abitata da signorie locali in guerra tra loro. Così succede come in quelle storie che quando finiscono, ci si chiede piuttosto perché siano iniziate. Per dire che ora che si avvicina il divorzio, nessuno si strapperà i capelli, non ci sarà bisogno di fazzoletti e suppliche. La separazione naturalmente apre il mercato della successione, i "capibastone" si fregano le mani ed hanno cominciato a confrontarsi sulle figurine. I pretendenti al trono al momento sono cinque: il «sogno», due primi cittadini in scadenza entrambi candidati alle elezioni europee nella medesima circoscrizione (il Centro), il «nuotatore» che galleggia in tutti i mari, e l’altro sindaco che spera di ricostruirsi una sua credibilità.
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Il primo, il «sogno», detto anche il «moviola» (per mettere in chiaro che non si tratta di uno scattante) è Paolo Gentiloni, attuale commissario europeo in uscita. Per il momento nega qualsiasi interesse, ma d’altra parte è pur vero che non si ammette preventivamente l’insano desiderio di conquistare un nido di vipere quale è il Pd. Qualcuno ci lavora, molti ci sperano, il modello sarebbe lo stesso usato per Enrico Letta, salvatore della Patria. Capofila dell’opzione «il moviola», l’inappuntabile ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini, chiamato dagli amici «Forlani». Gli altri due sono il «professore» e il «saputello». Il primo è Dario Nardella, sindaco in scadenza di Firenze, portaborse di Vannino Chiti, poi alla corte del Matteo Renzi della prima ora, da cui assume onori ed incarichi (come l’ufficio in Palazzo Vecchio), poi litiga con l’antico mentore, spalla di Bonaccini alle primarie, nuova rottura e trasferimento alle dipendenze di Dario Franceschini. Un giro del mondo da mal di testa, per le tante fermate e per la prosopopea un po’ logorroica del protagonista. Il secondo è Matteo Ricci, aria e fisionomia da compagno del primo banco, per intenderci quello ansioso di mostrare la sua preparazione alla maestra, anche lui volto televisivo del renzismo, trasferimento con il Presidente dell’Emilia Romagna, definitiva collocazione nella nuova corrente di sinistra creata da Goffredo Bettini, Andrea Orlando e Roberto Morassut. Già Andrea Orlando, il quarto, quello che galleggia, lo spezzino che è stato con Fassino, con Veltroni, con Renzi (per non perdere la poltrona), con Giuseppe Conte. Ora ha due strade davanti, il Nazareno sempre sognato, o il ritorno a casa, per il dopo Toti, come candidato presidente in Liguria.
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Infine, c’è Antonio Decaro. Pareva "azzoppato" dalle inchieste giudiziarie scoppiate nella sua Bari, ma adesso, forte del secondo posto in lista nella circoscrizione Sud, ambisce ad un bel gruzzolo di voti da far pesare nel partito. La deadline è abbastanza ferrea: l’8-9 giugno se il Pd dovesse rimanere bloccato intorno alla percentuale del 20% (22,7% la percentuale raggiunta alle precedenti europee), o peggio dovesse persino fermarsi sotto, il patibolo scatterebbe all’istante. Nelle più ottimistiche previsioni, la permanenza della «extraterrestre» al terzo piano del Nazareno, non andrebbe comunque oltre la fine dell’anno. Il tentativo fallito di legare il suo nome al simbolo sarebbe stata un po’ come l’ultima goccia di un continuo logoramento che parte da lontano. D’altra parte la drammatica direzione di domenica ha offerto un quadro devastante. Elly è rimasta sola con il suo «tortellino magico», non a caso esponenti prevalentemente esterni. A difesa del fortino assediato solo Nicola Zingaretti, prossimo capo delegazione a Bruxelles, e Francesco Boccia, il capo dei senatori dem. Insomma era arrivata sull’onda delle note di «lei che bacia lui che bacia lei che bacia me», se ne andrà senza troppi complimenti.
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