l'analisi

Schlein, quel tabù che nemmeno Renzi osò rompere per qualche voto

Augusto Minzolini

Alla fine Ely Schlein ha ceduto alla tentazione e ha rotto un tabù che aveva infranto prima di lei solo Walter Veltroni per contrapporsi a Silvio Berlusconi: il suo nome nel simbolo del Pd. Con Walter non andò bene contro il Cavaliere, vedremo se ad Ely nel duello contro Giorgia Meloni andrà meglio. Di certo è una rottura con il passato visto che a sinistra l’eccesso dileaderismo è sempre stato guardato con sospetto. Una volta addirittura era considerato un’accusa, un peccato, un sacrilegio. Sono cambiati i tempi e le innovazioni degli altri vengono adottate anche da queste parti. In fondo la sinistra non è più egemone da tempo. Così la sobrietà e la pudicizia dei vari Prodi, Rutelli, Bersani, Renzi sono finite in soffitta e ora il partito, a quanto pare, farà la sua battaglia sotto le insegne della Schlein. Magari il cognome così com’è scritto non l’aiuta, dà l’impressione che le elezioni si svolgano in Germania, Svizzera o Austria. Ma poco importa visto che nel nord-est «Stati Uniti d’Europa», per capirci la lista Renzi-Bonino, presenta l’inglese Graham Watson con l’Inghilterra che non è neppure nella Ue. Queste, però, sono frivolezze. Quello che conta è il pragmatismo della segretaria del Pd, la risposta che ha dato al sempre valido dilemma mi giova o non mi giova.

 

  

 

Soppesando i «pro» e i «contro» la Schlein, sempreché com’è sua abitudine non ci ripensi, ha concluso che il nome nel simbolo per diversi motivi l’aiuta. Le ragioni sono molteplici. Innanzitutto qualche sondaggista (vedi la Ghisleri) l’ha convinta che con lei in lista il Pd un mezzo punto o qualche decimale lo guadagna. Eppoi la scelta ha anche il sapore di una rivincita: la Schlein avrebbe voluto candidarsi capolista in tutte le circoscrizioni, ma tre quarti del partito a cominciare dalle donne non gli ha risparmiato un fragoroso «niet». Il nome nel simbolo è una sorta di rivincita, un modo per ricordare dopo tanti inciampi che la leader è sempre lei: all’avversaria Meloni, al suo competitor nel campo largo Giuseppe Conte, ma soprattutto al suo partito che aveva già ominciato a sognare Paolo Gentiloni. È una scelta - ne è consapevole- ad alto rischio. Se andassero male le elezioni non avrebbe alibi, gli addosserebbero la sconfitta proprio come 15 anni fa a Walter. Ma in fondo non ha nulla da perdere, i suoi nemici in caso di sconfitta lo farebbero lo stesso con Schlein nel simbolo o no. E a guardar bene dentro le cose ci si accorge che Elly, al di là dell’immagine radical chic e il debole per l’armocromia, è più scaltra di quanto sembri. Si è fatta due conti. Veltroni sul suo nome perse le politiche in uno scontro diretto con il Cav. Le elezioni europee sono un’altra cosa: il duello con la Meloni per la Schlein è solo immagine, narrazione, quello che per lei è importante è aggiungere qualche punto al dato delle ultime politiche.

 

 

Un obiettivo realizzabile visto che l’elettorato del Pd è il più attento al Parlamento di Strasburgo, sicuramente più dei grillini (Furbizio Conte col cavolo si è presentato) e per alcuni versi anche degli altri partiti. Matteo Renzi prese il 40% nel voto per Strasburgo non per quello per il Senato o per la Camera dei deputati. Meditate gente. La Schlein probabilmente lo ha fatto e sicuramente il suo «o la va, o la spacca» alle elezioni europee è meno rischioso per lei di un congresso del Pd. Anzi, se gli riuscisse di prendere quel punto in più, se superasse la fatidica soglia del 20% taciterebbe tutti i suoi avversari. Insomma, potrà sembrare strano ma il suo è un rischio calcolato suggerito dall’istinto di sopravvivenza. Poi le politiche potranno andare anche in maniera diversa perché un Pd con il nome della Schlein avrà un’identità più marcata a sinistra, l’area riformista sarà più emarginata e la capacità di rappresentanza del partito verso i ceti moderati ancora più labile. Ma alla Schlein che rischia adesso la poltrona di segretario interessa l’oggi non il domani. E interessa ancor meno la tradizione e la Storia della sinistra nelle sue diverse fasi e il grido di dolore dei Padri del passato come Romano Prodi che hanno sempre avuto la decenza di rispettare certi principi. In fondo nella Storia non è la prima volta che qualcuno per sopravvivere mette al rogo tradizioni, principi e Padri.