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Via della Seta, addio all’ultima eredità grillina: l’Italia lascia l’accordo con la Cina

Dario Martini

Il governo italiano ha consegnato a quello cinese una nota con cui annuncia l’uscita dalla Via della Seta, Belt and Road Initiative, come si chiama ufficialmente. La Bri è un grande progetto infrastrutturale e commerciale del presidente Xi Jinping a cui il nostro Paese ha aderito nel 2019 durante il primo esecutivo guidato da Giuseppe Conte con Luigi Di Maio ministro degli Esteri fortemente favorevole. Si trattava di un’intesa molto larga, che spaziava dai trasporti all’energia, dall’industria siderurgica alla cantieristica navale. Alla fine l’approvazione fu tribolata, vista la contrarietà della Lega. La decisione italiana di non rinnovare l’accordo (aveva scadenza quadriennale) è stata comunicata a Pechino quattro giorni fa. Una disdetta avvenuta lontano dai riflettori, con una lettera inviata dalla Farnesina all’ambasciata cinese. Missiva con cui viene però ribadita l’intenzione di «sviluppare e rafforzare la collaborazione bilaterale». Entrambi i governi non hanno fatto comunicati ufficiali, preferendo non creare inutili tensioni.

 

  

 

Dopo reddito di cittadinanza e superbonus, l’addio alla Via della Seta è l’ultimo tassello del castello grillino smantellato dal governo di centrodestra. Una decisione presa per due motivi. Il primo di politica internazionale e rapporti geopolitici, il secondo per un mero calcolo di opportunità economica. Bisogna ricordare, infatti, che l’Italia è stato il primo e unico paese del G7 a esservi entrato quattro anni fa. Tra l’altro, gli Stati membri dell’Unione Europea che sono entrati nella Bri firmando un "memorandum d’intesa" sono 17 e appartengono tutti all’Europa dell’est o del sud, con l’unica eccezione del Lussemburgo. Tanto per essere chiari: non vi hanno mai aderito Francia, Germania e Spagna. Di fatto, nessuno di coloro che vi ha preso parte ha riscontrato particolari benefici economici. Di contro, il vantaggio è stato sicuramente cinese, perché l’obiettivo, non detto, è quello di espandere l’influenza di Pechino in Occidente e in Europa, passando dall’Asia e dall’Africa. Non è un caso che il progetto sia sempre stato mal visto negli Stati Uniti. La mossa di cui si è avuto notizia ieri è il frutto di un lungo lavoro avviato questa estate, con una missione in Cina del segretario generale della Farnesina, Riccardo Guariglia, preparatoria della visita del ministro degli Esteri Antonio Tajani a inizio settembre. L’interlocutore cinese, insomma, sapeva da tempo quale fosse l’intenzione italiana. Il governo Meloni, prima di decidere di uscire ufficialmente dal memorandum, ha provato anche ad apportare delle modifiche sostanziali all’accordo. Non trovando disponibilità dalla Repubblica popolare, ha deciso di uscire.

 

 

Il ministro Tajani ha spiegato in questi termini la decisione presa: «La Via della Seta non è la nostra priorità, abbiamo visto che non ha prodotto gli effetti sperati, anzi. Chi non è parte del percorso ha avuto risultati migliori. La non partecipazione alla Via della Seta non significa che sia un’azione negativa nei confronti della Cina, significa poter continuare ad avere ottimi rapporti e lavorare intensamente sugli aspetti commerciali per rafforzare la riunione intergovernativa Italia-Cina e affrontare tutti i temi del commercio internazionale. Continuano ad esserci ottimi rapporti, pur essendo un Paese che è anche un nostro competitor a livello globale». La riunione intergovernativa di cui parla Tajani si terrà a settembre a Verona. Come prevedibile, è arrivata la forte critica di Giuseppe Conte, il promotore dell’"ingresso" cinese in Italia: «Meloni ha fatto un autogol, a pagarne lo scotto saranno le imprese e le famiglie. Avevamo lavorato ad un’intesa programmatica che non interessava nessun asset e infrastruttura strategica del nostro Paese». L’uscita dalla Belt piace anche ad una parte delle opposizioni. Per il leader di Azione Carlo Calenda «lo stop alla Via della Seta è una decisione sacrosanta. Avere buoni rapporti con la Cina e diventarne una pedina in Ue sono cose molto diverse». Anche Italia Viva, con l’eurodeputato Nicola Danti, saluta con favore la fine della Via della Seta: «Oggi, finalmente, il governo Meloni ha abbandonato la partecipazione alla Belt and Road initiative. Conte, a suo tempo, ipotizzava accordi fino a 20 miliardi, peraltro in un contesto completamente sbilanciato a favore della Cina, naturalmente, di questi soldi non se ne è vista l’ombra. Insomma un altro capolavoro della nefasta stagione dell’avvocato del popolo a Palazzo Chigi».