LA RIVOLUZIONE DEL PREMIERATO
Premierato, i gufi della sinistra sperano nel referendum per far cadere Meloni
Chiunque voglia scrivere un manuale per guidare delle forze d’opposizione a costruire un’idea di Paese che le renda credibili per governare c’è un posto a cui non deve assolutamente guardare: l’Italia. Di prove se ne hanno a profusione in questi primi dodici mesi a guida centrodestra, ma la consacrazione è arrivata nel dibattito intorno alla proposta di riforma sulla forma di governo. Qui, la reazione del duo Pd-Cinque Stelle è corale: se al referendum, conseguente alla mancanza dei due terzi in Parlamento per approvare le modifiche in Costituzione, la proposta del governo dovesse uscire bocciata, Giorgia Meloni dovrebbe dimettersi. Dunque, come primo approccio non c’è male: si salta il dibattito sul merito del disegno di legge, si omette l’importanza della rappresentanza, si ignora il tema su come riportare gli italiani a votare e si va subito al dunque: governo a casa. Che poi, facendo due calcoli, il referendum dovrebbe tenersi nei primi mesi del 2025 ma ciò a quanto pare è poco rilevante: ogni occasione per aggrapparsi alla defenestrazione dell’avversario, fosse anche un’occasione virtuale, è troppo ghiotta per lasciarsela scappare. Non rileva neanche il fatto che la Presidente del Consiglio ha fatto sapere di non avere alcuna intenzione di «personalizzare» la consultazione, contrariamente a quanto fece nel 2016 Renzi (non essendo, il suo mandato a Palazzo Chigi, sostenuto da una maggioranza «elettorale»), il quale accese intorno a quell’appuntamento una sorta di Armageddon politico. A sinistra tutto questo non interessa.
Il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte, in un’intervista a Repubblica, ha preventivato che o la maggioranza accetta di cambiare il testo, oppure «si andrà a schiantare nel referendum confermativo». Ancora Conte, ieri, affermava: «Nonostante la Meloni abbia messo le mani avanti, io credo che se andasse al referendum e perdesse dovrebbe necessariamente trarne le conseguenze». Poi c’è il lato Pd. Il capogruppo al Senato Francesco Boccia, intervistato da Radio Radicale, afferma: «Se il governo perde il referendum deve andare a casa: una riforma costituzionale imposta dal governo al Parlamento e ai cittadini che poi viene respinta dagli italiani obbliga il governo a lasciare». La sua omologa alla Camera, Chiara Braga, in un colloquio su Repubblica, alla domanda sulle dimissioni della premier in caso di sconfitta al Referendum, afferma: «Ci sarebbero già motivi per farlo ma sicuramente se definisci questa la "madre di tutte le riforme", non puoi fischiettare e non trarne le conseguenze». Ora, esistono due elementi critici in questo atteggiamento. Il primo, facilmente individuabile, è lo smanioso moralismo politico che poi si trasforma in boomerang. Nelle ultime due legislature, 2013-2022, dunque nove anni, il Pd ha governato per ben otto, in nessun caso guidando una maggioranza corrispondente a quella che si era presentata alle elezioni. In questo campionario di operazioni di Palazzo, forse la più lampante era l’esperienza del governo con i 5 Stelle, Presidente del Consiglio Conte. Uno schema successivo ad un altro in cui lo stesso Conte governava con la Lega. L’Italia si ritrovò dall’avere un governo su cui convergevano due diverse identità di populismo (comunque con dei tratti comuni, che però ben presto non ressero alle differenze ben maggiori) a un Esecutivo che invece univa tutte le realtà di sinistra presenti nel quadro politico, da quella liberal di ispirazione anglosassone a quella progressista dai tratti sudamericaneggianti e filocinesi. Con lo stesso Presidente del Consiglio. Questo passaggio avvenne senza chiedere il parere agli lettori, in una procedura legittima sul piano costituzionale, ma un po’ deficitaria su quello dell’opportunità politica.
Poi c’è un’altra questione. La sinistra non ha ancora nemmeno lontanamente gettato le basi per un’alternativa alla maggioranza che attualmente governa. Non vi sono convergenze, se non sporadiche e molto fragili. Fremere per le elezioni senza aver quanto meno in costruzione un progetto significa non essere per nulla calati nella complessità del momento e nell’esigenza di stabilità che questo Paese, specie in questo momento, richiede.