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Medio Oriente, Giorgia Meloni lancia l'allarme: rischio emulazione

Pietro De Leo
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C’è un punto nodale affrontato dal Presidente del Consiglio Giorgia Meloni nel suo incontro con i giornalisti durante la trasferta in Mozambico. Ed è quello sui rischi per la sicurezza interna derivanti dal riacutizzarsi della crisi in Medio Oriente. «Non c’è un livello di allerta particolare in Italia, abbiamo rafforzato la sicurezza dei luoghi sensibili e delle comunità ebraiche», ha detto. E ancora: «mi ha colpito il fatto che miliziani di Hamas volessero riprendere scene così atroci e questo può portare al rischio che qualcuno ritenga di dover emulare il terrore. I nostri servizi sono allertati», ed in questo contesto «bisogna controllare chi arriva soprattutto dalla rotta balcanica».

Parole che prendono corpo da una dinamica non nuova, che si è riproposta con considerevole forza negli attacchi di sabato scorso, ovvero l’iniezione di codici e linguaggio della mediaticità globale negli attacchi di terrorismo islamico. C’è un dato, attorno a quanto accaduto nello scorso fine settimana, ovvero che, forse nella maniera più forte dopo decenni, l’offensiva degli assassini di Hamas eleva la crisi israelo-palestinese da regionale a globale. Probabilmente, un impatto così grande non si vedeva dalla mattanza degli atleti israeliani a Monaco ’72. Ed in questa dinamica una parte del peso è rappresentata anche dalla resa mediatica dell’aggressione. Soprattutto in un contesto, il rave nel deserto in occasione della festa ebraica di Sukkot, nona torto associato alla strage islamica del Bataclan di Parigi nel novembre del 2015. Ora come allora, abbiamo visto giovani vite ghermite.

Ora come allora, abbiamo visto i parenti dei dispersi lanciare sul web richieste d’aiuto, con tanto di foto, per ritrovare i propri figli, fidanzati, fratelli. Con una differenza, però, rispetto all’altra volta, ovvero l’«utilizzo mediatico» degli ostaggi. Il rapimento di molti fra loro è stato scrupolosamente ripreso con gli smartphone. La 22enne tedesca Shani Louk, ripresa riversa in un pick up, probabilmente con le gambe spezzate e un’evidente ferita alla testa, mentre la portavano via. O la 25enne israeliana Noa Argamani, caricata in moto mentre grida e protende le braccia verso il suo fidanzato, impossibilitato a fare qualcosa visto che gli vengono legati i polsi e portato via. Sono le istantanee di giovani appartenenti ad una generazione che anela alla vita colpiti da coetanei che invece inseguono la morte. Accanto a queste immagini, poi, ve ne sono altre ad atterrire. La donna di Nir Oz, kibbuz vicino al confine con la Striscia di Gaza, uccisa in casa da un miliziano di Hamas che poi si è impossessato del suo telefonino, ha scattato delle foto al cadavere e l’ha postato su Facebook. O ancora la notizia dei bambini ebrei decapitati.

Ciò che per la civiltà della vita e della libertà è terrore e paura, per quella della morte e della segregazione è linfa ed esaltazione. Questi due aspetti uguali e contrari si riflettono nell'approccio allo strumento mediatico. E non è la prima volta che accade. L’11 settembre, per esempio, mentre in tutte le case occidentali ci si fregava gli occhi, nell’incapacità di metabolizzare il trauma, di fronte alle immagini tv delle Twin Towers che venivano giù, a Nablus e Ramallah si scendeva in piazza per festeggiare. Hugo Micheron, studioso francese, in un libro di recente uscito per Gallimard («La rabbia e l’oblio») ha spiegato con una metafora marittima la dinamica del terrorismo islamico: ci sono fasi di piena e fasi di risacca. Che ora sia in corso un’onda lo dimostra anche l’appello diffuso su diverse chat in arabo dal gruppo «Arin al Aswad», affinché i musulmani scendano in piazza in tutto il mondo con «molotov e pietre». È il potere del «brand» fondamentalista, che torna ad circolare ogni qualvolta ci sia un evento dirompente. E lo spontaneismo, la jihad fai da te, è il rischio più lampante che corre l’Occidente. Di cui abbiamo avuto riprova ad Arras, in Francia, dove un ceceno di 20 anni ha ucciso un professore della sua ex scuola con un coltello, al grido di Allah Akbar. Quella parola sinistra tornata a risuonare in una città europea. Anche questo già visto, purtroppo.

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