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Meloni, l’alternativa non è un governo tecnico. Ma le elezioni anticipate
C’è un velo di amarcord in questi giorni, e allora per re-immergersi nello spirito dei tempi andati è utile una scorsa ad un antico account Twitter, ora X, «Gli elicotteri del Fondo Monetario Internazionale». Impazzava oltre una decina d’anni fa, ai tempi del governo Monti, e il simpatico gestore scrisse anche in seguito, ogni qualvolta la partita nel confronto con l’Europa si faceva dura. «Per noi il sistema migliore è il commissariamento», twittavano (allora di diceva così) gli «Elicotteri» sul sistema elettorale. Era la versione comica e irridente degli auspici di governi tecnici, controllo europeo, messa in congelatore della democrazia italiana, cure da cavallo e piani di salvataggio. Insomma, il racconto politico attorno alla caduta del governo Berlusconi e l’esperienza del professore in loden. E sarebbe opportuno che, oggi, quell’ironia degli elicotteri ricominciasse a volteggiare, per buttare in barzelletta quello scenario costantemente dipinto da Repubblica e Stampa circa l’arrivo di un governo tecnico, che sa tanto di evocazione sciamanica. Lo spirito di qualche Professore (inteso come figura metaforica) che possa materializzarsi più o meno da lontano, scalzare via Giorgia Meloni da Palazzo Chigi e magari spaccare il centrodestra. Un’evocazione che, però, si perde nel fumo delle illusioni, perché il partito di maggioranza relativa (Fratelli d’Italia) non sarebbe mai disponibile ad un’operazione del genere. Così come gli alleati della coalizione, Lega e Forza Italia, hanno più volte manifestato, e senza ombra di equivoci, pieno ancoraggio al centrodestra, ognuno nella legittima rivendicazione delle proprie istanze che non ha mai neanche sfiorato i livelli di guardia.
D’altronde l’auspicio di un ribaltone fu manifestato persino nei preliminari di questa legislatura, quando c’era chi disegnava un Draghi-dopo Draghi (anche questo, il qualcuno che dovrebbe succedere a se stesso, è una costante che si è avuta da Monti in poi alla fine di ogni legislatura) perché il centrodestra non si sarebbe mai trovato d’accordo nel formare un governo o quantomeno si sarebbe liquefatto subito dopo. Certo, la situazione a livello economico non è rosea: c’è un debito pubblico molto alto (e si aspetta con giustificata trepidazione il giudizio delle varie agenzie di rating nelle prossime settimane), inflazione e politica della BCE sui tassi restringono gli spazi di manovra. Ma c’è un contesto ben diverso rispetto al 2011. Allora, una mossa a tenaglia contro il governo italiano (solcato da divisioni interne) ci fu e ne raccontarono anche libri usciti anni dopo a firma di autorevoli protagonisti di governi stranieri, come il ministro del Tesoro dell’Amministrazione Obama Timothy Geithner e il Primo ministro spagnolo José Luis Zapatero. Il primo liberal, il secondo socialista, vocazioni politiche non proprio afferenti a quella di Silvio Berlusconi. Eppure confermarono la tesi del disarcionamento eterodiretto, innescato dal coagulo franco-tedesco.
Oggi, quel coagulo non esiste, essendo le rispettive leadership molto più deboli che in passato, sul piano interno come nel contesto comunitario. Dove le istituzioni Ue arrivano al termine del quinquennio sfibrate, lacerate da divisioni interne (l’eterno duello Von der Leyen-Michel, Commissione contro Consiglio), inchiodate alla propria marginalità nel quadro geopolitico. Una situazione differente rispetto al 2011. L’Italia rischia senz’altro di subire i contraccolpi di una crisi di sistema sul piano comunitario accelerata da alcuni sconvolgimenti geopolitici, tra guerra in Ucraina e flussi migratori. In ogni caso lo scenario definitivo per il governo non porterebbe ad un Esecutivo tecnico, ma a nuove elezioni dove, lo dicono i sondaggi, sarebbe confermata la primazia del centrodestra. E le opposizioni arriverebbero all’appuntamento con un tasso di litigiosità inversamente proporzionale a quello della progettualità. Si tratterebbe, insomma, di una replica del 2022. Piuttosto, viene spontaneo un interrogativo. Sul perché certi giornali di area progressista, invece di evocare scenari da commissariamento del volere popolare, non siano in realtà più attivi nello stimolo affinché l’area di riferimento ritrovi una proposta, un’idea, una visione di Paese. Avere un’opposizione calata nel Paese e non con lo sguardo puntato perennemente su se stessa, questo sì, renderebbe la nostra democrazia senz’altro più matura.