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Morto Napolitano, da "ministro degli Esteri" Pci a Presidente della Repubblica

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Primo Capo dello Stato rieletto nella storia della Repubblica, unico presidente nato e cresciuto politicamente nelle fila del Pci (di cui era considerato il "ministro degli Esteri", per la capacità di tenere i rapporti internazionali del partito), europeista e atlantista convinto (tanto da essere considerato l’unico comunista amato Oltreoceano), uomo così impegnato nella difesa delle istituzioni da reinterpretare, in qualche caso, le prerogative previste dalla Costituzione per il suo ruolo pur di mettere al sicuro il Paese. Giorgio Napolitano si è spento all’età di 98 anni, compiuti lo scorso 29 giugno. Eletto quale undicesimo inquilino del Colle la prima volta il 10 maggio 2006 e la seconda volta il 20 aprile 2013, Napolitano ha indossato, in entrambi i mandati da presidente della Repubblica, oltre alle vesti che gli competevano come garante della Costituzione, anche quelle di un Capo di Stato con maggiori poteri esecutivi, indirizzando e guidando il lavoro dei cinque governi che ha battezzato.

Quasi 9 anni trascorsi nelle stanze del fu Palazzo dei Papi e prima una vita in politica e per la politica, come deputato (viene eletto per la prima volta nel 1953 e ne fa parte - tranne che nella IV legislatura - fino al 1996), presidente della Camera dal 1992 al 1994, europarlamentare, ministro dell’Interno del governo Prodi dal maggio 1996 all’ottobre 1998. È proprio in seguito alle dimissioni del secondo governo Prodi che Napolitano si trova a gestire le sue due prime crisi dell’esecutivo, da presidente della Repubblica: nel 2007 e nel 2008, quando poi decide di sciogliere le Camere. Nel novembre 2011 è il quarto governo guidato da Silvio Berlusconi a non avere più una maggioranza parlamentare alla Camera. L’Italia è sotto un forte attacco speculativo ai titoli di Stato e Napolitano si accorda con il Cavaliere per un suo passo indietro non appena concluso l’iter di approvazione delle leggi di bilancio. L’inquilino del Colle affida a Mario Monti, dopo averlo nominato senatore a vita, l’incarico per la formazione di un nuovo Governo e assume un ruolo da kingmaker anche nella fase di formazione dell’esecutivo, tanto che il New York Times attribuisce al Capo dello Stato italiano il soprannome di "Re Giorgio". Cresce intanto la fortuna del M5S. Napolitano non ne riconosce il «boom» nelle amministrative 2012 («ricordo quello degli anni Sessanta, altri non ne vedo», azzarda) ma si trova in più di un’occasione a confrontarsi con l’arrivo dell’antipolitica che si propone come forza di governo. Nel 2013, dopo le elezioni politiche della "non vittoria" del Pd, l’allora inquilino del Colle affida a Pierluigi Bersani un mandato esplorativo per verificare se esista una maggioranza in Parlamento. Beppe Grillo e compagni dicono no e ne segue uno stallo che coinvolge anche la scelta del suo successore al Colle. Dopo 5 votazioni andate a vuoto e il rischio di una paralisi istituzionale Napolitano dice sì al secondo mandato. «È un segno di rinnovata fiducia che raccolgo comprendendone il senso, anche se sottopone a seria prova le mie forze», dice, mettendo in evidenza «l’affetto che ho visto in questi anni crescere verso di me e verso l’istituzione che rappresentavo».

"Re Giorgio", però, non risparmia il j’accuse: bisogna «offrire, al Paese e al mondo, una testimonianza di consapevolezza e di coesione nazionale, di vitalità istituzionale, di volontà di dare risposte ai nostri problemi. È a questa prova che non mi sono sottratto», dice, ma mentre i parlamentari lo applaudono punta il dito contro quanto accaduto: «Il punto di arrivo di una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità», che partono dalle mancate risposte a «esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti». Dopo aver prestato il secondo giuramento, Napolitano individua allora in Enrico Letta la figura per guidare un esecutivo di larghe intese, sostenuto anche da FI. Nel febbraio 2014 il vicesegretario Pd si dimette, di fatto sfiduciato da Matteo Renzi, e il presidente della Repubblica incarica il "rottamatore" fiorentino di formare il governo, non tralasciando di intervenire, anche in questo caso, sulla lista dei ministri. Tanti i "moniti" ancora rivolti alla politica, fino all’ultimo discorso agli italiani. È il 31 dicembre del 2014 e Napolitano spiega la decisione di lasciare, di «rassegnare le dimissioni», interrompendo dopo meno di due anni il suo secondo settennato: «Ho il dovere di non sottovalutare i segni dell’affaticamento e le incognite che essi racchiudono e dunque di non esitare», dice chiaro. Il suo però non è un addio. La mancata attuazione delle riforme istituzionali gli impone nuovi interventi, anche se da senatore a vita e presidente emerito. Così accade con il contestato disegno di legge Boschi, che però «deve essere portato al suo compimento». Fino alla battaglia referendaria, quando richiama alla pacificazione e al dialogo costruttivo ricordando «lo spirito che condusse una larghissima maggioranza ad approvare la Carta nell’Assemblea costituente nonostante, su punti non da poco, molti avessero forti riserve». Al telefono le ultime "consultazioni", interpellato dal suo successore Sergio Mattarella per la formazione degli ultimi Governi della Repubblica.

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