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L'ascesa di Giorgia Meloni, donna sola al comando

Luigi Bisignani
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Caro direttore, era meglio perfino la Prima Repubblica. Non foss’altro per la stabilità di direzione che, in qualche modo, si autoimponevano le maggioranze politiche dei governi che si succedevano. A dirlo è Giorgia Meloni la quale, c’è da giurarci, ha visto molto «smog entrare dalle finestre di Palazzo Chigi», per citare Super Mario. Ora è lei che ambisce a una stabilità di mandato per portare a segno gli obiettivi che ha promesso in campagna elettorale al suo 30% di elettori, allontanando così la voce ricorrente di un «election day» in concomitanza con le prossime elezioni europee, dove farebbe ancora il pieno di voti. Ma fino a quando potrà proseguire la sua marcia in solitaria?

Il suo pensiero lo spiega ne «La versione di Giorgia - Alessandro Sallusti intervista Giorgia Meloni», edito da Rizzoli. È il libro-manifesto nato, pare per caso, da un incontro avvenuto tra il giornalista e il premier in occasione degli auguri di Natale. Sallusti lo chiama libro-verità e, in effetti, appare subito evidente che a Giorgia, decisionista e sbrigativa, l’idea di dire la sua verità vada proprio a genio. Detto fatto. Quale modo migliore di un compendio non intermediato? Ed è anche un modo elegante per togliersi qualche sassolino dalle sue sempre impeccabili scarpe. In uno stralcio è scritto: «Ancora più divertente è leggere quelli che, detestandoti palesemente, ti danno ogni giorno consigli su quello che dovresti fare, su chi dovresti essere, su cosa dovresti dire, perfino sulle persone delle quali dovresti avvalerti....e pure su quelli che non devi frequentare». Rimarcando così, a chi ha orecchie per intendere, che lei fa di testa sua. Tra una citazione e un ricordo racconta anche il fastidio per lo «svizzero» Carlo De Benedetti e per la famiglia Agnelli, che «si trasferisce» in Olanda. Parla della spocchia della sinistra - e di un certo Deep State ad essa collegato - «inchiodata a uno schema mentale che, mentre non riesce a ricostruire una sua identità, pretende di spiegare alla destra la sua».

 

 

 

Dunque, benvenuti a Giorgialand. Ma, diversamente dalla fantastica Barbieland, il mondo emancipato e autodeterminato di Giorgia è realtà. Giorgia è colei che chiede al premier tunisino Saied la pausa sigaretta, un vizio di cui non può fare a meno, proprio come Barack Obama. Così come ironizza sull’imperitura ossessione per la dieta o la rinunzia forzata alla palestra. Non manca di parlare dei rapporti con l’Europa e dei temi più scottanti di attualità: immigrazione, giustizia, merito, riforme, fisco e banche; compresa la questione della tassazione degli extraprofitti. Un provvedimento «sbavato» che, alla fine, sarà ridimensionato anche per le richieste di Forza Italia e l’onda di articoli del Financial Times.

Per fronteggiare il circuito di potere delle banche internazionali pericolosamente all’opera, Giorgia dovrà ricorrere a tutta la sua collezione di angeli.
Una narrazione efficace e coinvolgente del «noi e loro», dove «loro» è il nemico di turno, un giorno le banche, l’altro giorno una certa stampa o, naturalmente, la «sinistra». In un passaggio si legge: «La sinistra italiana e occidentale sta assumendo sempre più le caratteristiche di un pensiero fondamentalista: la convinzione di essere custodi della verità... è la visione distorta della realtà nella quale prospera l’integralismo religioso di matrice islamica». Un’affermazione forte, in cui la Meloni, senza paura né mezze misure, individua un nemico e non un avversario politico. Così facendo, tuttavia, in qualche modo rischia di confermare il furore dei media nello storytelling del premier che comincia a vacillare, quando deve creare sistematicamente un antagonista da delegittimare.

Dalle pagine, a tratti, sembra venir fuori ancora quella ragazzina che, con profonda abnegazione, era al servizio della sezione della Garbatella. In realtà non è così: oggi quelle idee sono diventate la rotta di una moderna destra conservatrice di cui lei è la prima interprete. Senza paura di pensare in grande perché è indubbio che sia già diventata grande, con tutto ciò che ne consegue, anche il fatto di svestire i panni di «Calimera» o di «underdog». Se ne ha la percezione alla fine del libro, quando, incalzata con maestria da Sallusti sul piano emotivo, Meloni politica e combattente lascia spazio al suo lato più umano e meno noto. L’amara consapevolezza che il tempo trascorso lontano dagli affetti non tornerà, l’indipendenza perduta anche solo per guidare un’auto, la libertà di madre di restare a casa con la figlia Ginevra. Oppure, su come viene oggi percepita dai vecchi amici che entrando a Palazzo Chigi restano «impietriti» e increduli perché, al posto della loro Giorgia, si trovano davanti il Presidente del Consiglio. In tutto questo aleggia una malinconia, sottomessa alla Ragion di Stato, che non le permette di mantenere il suo proverbiale controllo su tutto.

Qualora ve ne fosse bisogno, è ribadito che a Palazzo Chigi siede la prima premier donna della Repubblica Italiana, una «self-made woman» che non si piega agli stereotipi di convenienza né approccia le persone e i problemi secondo i classici paradigmi della politica. E che, soprattutto, incarna appieno i simboli del femminismo mainstream, con grande invidia della sinistra e della Schlein. Non è quindi un caso se nel libro non si fa mai riferimento ad una squadra di governo. Squadra che vince non si cambia, dice il proverbio. Mentre qui c’è solo lei al centro della scena. Speriamo che basti, magari cambiando solo qualche giocatore.

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