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C'era una volta il Terzo polo: Renzi-Calenda matrimonio impossibile

Pietro De Leo
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 In questa storia, di consensuale non c’è nulla, né l’abbraccio né l’addio, che come si vedrà è più intricato di quanto possa sembrare. Almeno stando all’ultima evoluzione di cronaca della vita del Terzo Polo, breve e irrequieta come come quella di una libellula. Parlando ad Agorà Estate, ieri il leader di Azione Carlo Calenda ha buttato sul tavolo una sorta di «de profundis» del progetto. «Oramai - ha detto - siamo due partiti separati, abbiamo scelte separate, non ho alcuna voglia di discutere con Italia Viva: faranno la loro strada e poi alle elezioni europee si misureranno con il consenso come faremo noi». Addio, dunque, sogni di un cammino unitario, con Emmanuel Macron come stella polare e magari, un giorno, anche nume tutelare.

 

In autunno parevano magnifiche sorti in quell’Auditorium della Conciliazione, dove calò da Parigi persino il Presidente di Renew Europe, Stephane Sejourne, e sembrava, Roma, centro pulsante di quel «Pde», partito democratico europeo, che dovrà conquistarsi il suo spazio politico come famiglia liberale alle prossime elezioni. Officianti, ovviamente, Matteo Renzi e Carlo Calenda, che davano l’impressione di camminare, per quanto con non troppo entusiasmo, verso la lista unica. Se mese dopo mese è diventato nitido lo squagliamento del partito unitario, ieri la separazione dei gruppi è parsa certa nella volontà ma problematica nella pratica.

 

«Non posso andarmene da un gruppo che ha il mio nome nel logo - ha detto ancora Calenda nel talk di Rai 3 devono decidere loro quando andarsene». Dove «loro» sta per i compagni di questo infelice viaggio, i renziani. Che infatti replicano ufficiosamente, con la formula delle fonti: «A differenza di quanto affermato da Carlo Calenda, il gruppo non ha il nome di Carlo Calenda. Il gruppo di cui fa parte assieme ad altri nove senatori si chiama "Azione- Italia Viva- Renew Europe"». Il «chi lascia chi», dunque, è la telenovela del tramonto di un progetto, di cui la difficoltà dell’amalgama era nelle premesse, anche per via delle personalità dei due fondatori, Carlo Calenda e Matteo Renzi, vocate alla leadership individuale. Ciò rendeva alquanto ardua, per utilizzare un eufemismo, una convivenza. Cosa che, nel corso del tempo, ha spesso fatto tracimare il dibattito interno, certo complesso in un percorso che si voleva federativo, in attacchi personali. Complici una certa tendenza di Renzi a far da sé, a «scartare» con accelerate i compagni di squadra e qualche punta moralistica di Calenda più volte emersa nel suo racconto pubblico.

Prova se n’è avuta di recente con il caso-Twiga, lo stabilimento di cui Daniela Santanché è stata comproprietaria per alcuni anni, ma che rimane comunque luogo-simbolo di una certa «way of life» di cui lei è immagine, zona di confine tra la politica e il costume. Ebbene, il Corriere della Sera pubblica la notizia che insieme a Daniela Santanché, al Twiga, qualche settimana fa erano attovagliati, tra gli altri, anche Maria Elena Boschi e Francesco Bonifazi, co-protagonisti di tutta l’epopea renziana. Immagine che non è piaciuta a Carlo Calenda. Tanto che Azione verga una nota in cui si definiscono queste cene «inopportune» e si infila un cuneo nel solco con Italia Viva sui risvolti politici dell’inchiesta giudiziaria che ha coinvolto il ministro del Turismo. I calendiani, infatti, sono pro dimissioni, i renziani no. Comunque, all’aver fatto della cena incriminata una sorta di mini-mozione congressuale replica Renzi: «Ognuno va a cena con chi vuole. Attaccare gli alleati per una cena non mi sembra lungimirante e nemmeno liberale. Io combatto contro sovranisti e populisti, Calenda attacca me».

Tuttavia, la cuspide del livello di scontro si raggiunse a primavera inoltrata. In uno dei (tanti) momenti di duello fra le due forze, Francesco Bonifazi imputa a Calenda di aver fatto troppe assenze in Senato. Il leader di Azione replica sottolineando che quando non si trovava a Palazzo Madama era «a fare iniziative sul territorio per Azione o Italia Viva. Non ero a Miami con il genero di Trump o in Arabia a prendere soldi dall’assassino di Kashoggi».

 

Il riferimento è all’attività di conferenziere di Renzi in Arabia Saudita e alla sua amicizia con il principe Mohammad Bin Salman. Un argomento, peraltro, già utilizzato in passato dall’ex ministro dello sviluppo economico, ma ai tempi in cui non era in condominio politico con l’ex premier. Che ha lanciato un siluro niente male, accusando Carlo Calenda di attaccarlo «sul piano personale, con le stesse critiche che da mesi usano i grillini, non dei liberal-democratici». E aggiungeva, il leader di Italia viva: «Se sono un mostro oggi, lo ero anche sei mesi fa quando c’era bisogno del simbolo di Italia viva per presentare le liste». E dunque la storia va proprio a quei frenetici giorni d’agosto, appena un anno fa, quando Calenda parte con l’idea di una corsa autonoma con Renzi, poi si affaccia in area Pd, dove già erano sistemati Sinistra Italiana e Verdi, poi torna indietro stante la difficoltà di convivere in un’alleanza così eterogenea. Il resto è un percorso di distinguo continui, a riprova di una legge quasi scientifica: è difficile mettere in piedi qualcosa di solido unendo due scissioni. Partiti entrambi dal Pd, ora Renzi e Calenda si trovano in una terra di nessuno.

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