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Lavorare meno, pagati uguale. L'ultima idea di Conte dopo il salario minimo

Edoardo Romagnoli
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Il reddito di cittadinanza è saltato. Chi non potrà lavorare potrà comunque continuare a contare sull’assegno di inclusione e la social card. Gli occupabili invece, come da definizione, dovranno trovare un lavoro. Il Movimento 5 Stelle dopo aver provato a difendere il reddito di cittadinanza fino all’ultimo momento utile ha capito che non c’era più nulla da fare e allora, nel tentativo di difendere quel bacino elettorale, ha deciso di riprendere una vecchia battaglia: la riduzione dell’orario di lavoro. L’idea era già nel programma elettorale dei pentastellati ma il 16 marzo 2023 si è concretizzata in una proposta di legge a prima firma di Giuseppe Conte presentata alla Camera. È una misura sperimentale con cui si punta a ridurre l’orario di lavoro fino a 32 ore settimanali a parità di retribuzione. Ma come? Attraverso due strade.

La prima: affidarsi alla contrattazione collettiva comparativamente più rappresentantiva. La seconda: riconoscendo alle imprese che lo accorderanno un esonero contributivo, ma solo in caso di trasformazione di contratti in essere e nuove assunzioni. «È la nuova frontiera abbracciata già da altri Paesi per consentire di tenere insieme qualità di lavoro e di vita» ha detto l’ex presidente del Consiglio. Secondo il leader dei 5 Stelle in Italia è necessario «ridisegnare il campo del lavoro e rilancio della produttività» perché in questo Paese «c’è ancora una struttura novecentesca» sul campo del lavoro. Non a caso le «otto ore di lavoro risalgono a un regio decreto del 1923».

Inutile dire che alla proposta dei Cinque Stelle si è subito accodato il Partito democratico e la Cgil. Parliamoci chiaro: non è una novità. In Europa si fa da anni. L’esperimento sulla settimana lavorativa da 4 giorni, che si rivelò un successo, è stato condotto nel Regno Unito tra 61 aziende e circa 3 mila lavoratori. E anche in Italia ci sono già esempi di questo tipo, Intesa Sanpaolo in primis. Non solo. Uno studio dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico in Italia si lavora 3 ore in più rispetto alla media della zona euro, con 33 ore a settimana, e circa 6 in più rispetto alla Germania. Nessuno mette in dubbio che in Italia il mercato del lavoro avrebbe bisogno di una riforma, non a caso il governo ha lavorato sul Dl lavoro. Il fatto è che tutte le misure vanno poi calate nella realtà in cui andranno a incidere altrimenti rischiano, nel migliore dei casi, di non servire a nulla, nel peggiore, di fare dei danni. Vedi il reddito di cittadinanza. C’è anche un ’ altra considerazione da fa re. La riduzione dell’orario di lavoro non si può imporre per legge ma può avvenire solo con un accordo tra le parti. Non è un caso se già ci sono degli esempi del Paese in questo senso. Si può già fare e se ancora non ha preso piede in tutto il Paese non è certo per la mancanza di una legge. Per questo la presentazione di una proposta di legge in questo senso è più utile a intestarsi una battaglia più che a operare un vero e proprio cambiamento nel mondo del lavoro.

Tra l’altro se fra gli intenti ci sono: l’aumento della produttività e dell’occupazione ormai sono tanti gli studi che smentiscono l’utilità di una legge per raggiungere questi obiettivi. Pietro Ichino, nel suo blog, riporta uno studio del 2002 di Bruno Crepon e Francis Kramarz in cui veniva analizzata la riforma francese del 1982 con cui si passava da 40 a 39 ore settimanali a salario invariato, concludendo come non fosse possibile individuare un effetto positivo sull’occupazione. Anzi un aumento del rischio di disoccupazione a causa del costo orario più elevato. Anche nel caso del Quebec, dove l’orario è passato da 44 a 40 ore settimanali, non si sono registrati aumenti del numero di occupati. Forse sarebbe più utile concentrarsi sulla qualità del lavoro e il benessere dei lavoratori. Cercando di rincorrere l’ideale confuciano per cui: «Se fai il lavoro che ti piace ti sembrerà di non lavorare neanche un giorno della tua vita». 

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