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Salario minimo, la rabbia di Giuseppe Conte

Gianni Di Capua
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È ancora battaglia sul salario minimo. Alla Camera è andato in scena l’ennesimo round tra maggioranza e opposizione. Nella commissione Lavoro di Montecitorio è stato il giorno del leader del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, che ha attaccato frontalmente la premier Giorgia Meloni: «Non ha dimostrato alcuna sensibilità» rispetto «a un problema sociale così urgente» e per la «dignità di lavoratori», è il giudizio. Il dibattito si è chiuso in serata con la decisione di rinviare tutto a martedì prossimo, quando si concluderà la discussione e si voterà l’emendamento della maggioranza che sopprime il testo presentato dalle opposizioni unite tranne Italia Viva. Schlein ha ribato che continueranno «a dare battaglia in Parlamento, ma credo dovremmo raccogliere firme in tutto il Paese. Il 75% delle italiane e degli italiani è favorevole». Una proposta che Conte ha accolto senza troppi entusiasmi: «Non ci fasciamo la testa, poi organizzeremo», ha spiegato.
La segretaria dem ha voluto ribadire che: «Ci sono 3 milioni e mezzo di poveri anche se lavorano. Non credo che il governo di Giorgia Meloni possa voltare la faccia dall’altra parte. Se ostacolano» la proposta sul salario minimo «non fanno un dispetto a noi, ma calpestano i diritti delle persone».

 

 

 

Il leader del M5S ha attaccato anche il ministro Antonio Tajani, che «ha parlato come fosse albar», con «frasi dette a vanvera: come si fa dire che noi non siamo in Unione sovietica, se ci sono 21 paesi europei che adottano questa misura?» e «come si fa a manifestare tanta ignoranza?». Poi ha innescato una polemica con il presidente della commissione, Walter Rizzetto di FdI, che «firmò nel 2014 un progetto di legge sul salario minimo», quando era ancora nei Cinque stelle. Rizzetto ha replicato dallo scranno della presidenza, tra le proteste dei deputati dell’opposizione che hanno additato il suo come un intervento politico. Il deputato di FdI allora ha lasciatola guida della commissione alla vicepresidente e ha risposto dagli scranni della maggioranza: «Se il presidente Conte fosse stato presente ieri in commissione avrebbe scoperto che la mia proposta sul tema è sintetizzata in una proposta del 2019 che riguarda i rapporti di lavoro non coperti dalla contrattazione collettiva». Scaramucce che hanno fatto da preludio alla decisione principale da prendere: quando votare l’emendamento. I deputati della minoranza si sono iscritti in massa a parlare con lo scopo evidente di procrastinare la votazione. Il presidente Rizzetto ha ripetuto che il provvedimento dovrà approdare nell’aula di Montecitorio il 28 luglio, data entro la quale gli uffici devono avere il tempo di istruire la pratica. La seduta è stata sospesa in modo da permettere all’ufficio di presidenza di riunirsi. Due le ipotesi: o proseguire la discussione a oltranza (proposta sostenuta dal M5S) o rimandare tutto a martedì (come preferirebbero gli altri gruppi). Passa la seconda, alla fine anche con il placet dei Cinque stelle che volevano «continuare per mantenere il governo in seduta-riferiscono alcune fonti del movimento- ma quando abbiamo visto che era a rischio il fronte unitario dell’opposizione abbiamo evitato di insistere». In ogni caso, la minoranza ha esultato: «Siamo molto soddisfatti e pensiamo che la maggioranza abbia il tempo per poter rivedere la posizione e rinviare definitivamente questo obbrobrio dell’emendamento soppressivo e ritirarlo», ha detto il capogruppo del Pd in commissione Lavoro, Arturo Scotto, mentre per il capogruppo M5S alla Camera, Francesco Silvestri, «abbiamo evitato che si votasse il soppressivo con un’opera di partecipazione alla commissione molto forte da parte delle opposizioni». Nel fronte del centrodestra ha parlato Foti, capogruppo di FdI alla Camera, ricordando: «Perché i 5 stelle in 4 anni e mezzo di governo e il Pd al governo per oltre 3 non hanno proposto di adottarlo per legge?».

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