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Giustizia, la sinistra ha ancora la sindrome di Berlusconi
Il difficile rapporto con la magistratura resta il convitato di pietra della politica italiana, e a più di trent’anni da Tangentopoli non si intravede ancora la fine del tunnel, per cui anche un ministro al di sopra di ogni sospetto come Nordio è già finito nel tritacarne di chi si oppone pervicacemente a ogni ipotesi di riforma. La sinistra, salvo rare eccezioni, ha sempre fatto ruotare la questione-giustizia intorno alla figura di Berlusconi, ma in realtà così facendo ha solo rinviato ad libitum la soluzione di un problema che incide sulla qualità stessa della nostra democrazia, e lo scontro ancora in atto dopo la morte del Cavaliere è la conferma che la sua persecuzione giudiziaria è stata solo la punta dell’iceberg. Peraltro, l'urgenza di riformare la giustizia ce la indica da tempo anche l'Ue, visto che siamo il Paese più sanzionato per i ritardi e le inadempienze del nostro sistema giudiziario: la Corte europea dei diritti dell’uomo, ad esempio, ha emesso migliaia di sentenze contro la lentezza dei processi italiani (amministrativi, penali e civili), un record assoluto nel Vecchio Continente. All’indomani dalla sua esclusione dal Senato, Berlusconi dichiarò: «Sarò in politica finché non avrò dato una riforma della giustizia agli italiani»: purtroppo non gli è riuscito, e ora il centrodestra ha quindi il dovere morale di rispettare, insieme al programma di governo, anche la memoria del duo fondatore. Il «trattamento speciale» che un numero inusitato di pm gli ha riservato da quando scese in politica è l'emblema stesso di una giustizia politicizzata che non persegue i reati, ma costruisce teoremi indimostrabili e li porta in fondo costi quel che costi, fiancheggiata da un formidabile e interessato apparato mediatico. Restano scolpite nella memoria, a questo proposito, le rivelazioni di Palamara sulle vicende che nel 2013 portarono alla condanna di Berlusconi, e alla sua successiva decadenza da senatore per frode fiscale, con le gravissime ombre gettate su quella sentenza dal giudice relatore in Cassazione. Eppure ancora oggi autorevoli osservatori del conflitto tra magistratura e politica sostengono che non è storicamente accertato che ci siano state né cospirazione né regia alla base dell’azione giudiziaria. E che i media, udite udite, quasi sempre rinunciano ad enfatizzare i propri scoop: versione dei fatti, questa, contraddetta da quel pool di grandi direttori che si consultava ogni sera per fungere da ufficio stampa della Procura di Milano e dalla inveterata abitudine di trasformare un avviso di garanzia in una condanna definitiva.
Dalla storia degli ultimi trent’anni emerge in modo netto che esiste un pesante macigno da rimuovere per salvaguardare l'equilibrio tra i poteri dello Stato ripetutamente alterato dalle incursioni delle toghe rosse, ai danni della stessa volontà popolare. Si tratta di una fondamentale questione democratica. Che il potere dei pubblici ministeri sia straripato troppo spesso in un’onnipotenza senza regole - e senza che gli errori siano mai stati sanzionati - non è una teoria o una supposizione: è la cruda realtà che ha trovato riscontro, per fare un solo drammatico esempio, nell’uso indiscriminato della carcerazione preventiva, assurta ai tempi di Tangentopoli a metodo coercitivo di acquisizione della prova. Mani Pulite è passata alla storia come la rivoluzione giudiziaria che seppellì la Prima Repubblica, ergendosi a baluardo dello Stato che non si limitava a individuare e punire i singoli reati corruttivi, ma si arrogava la funzione salvifica di mobilitare le coscienze per una collettiva rinascita etica. Summus ius, summa iniuria: Carlo Giovanardi, nel suo libro «Storie di straordinaria ingiustizia» ricordò che 88 deputati della Democrazia Cristiana, su un totale di 206 eletti alle elezioni del 5 aprile 1992, furono inquisiti, ma tranne quattro furono poi tutti prosciolti o non giudicati. Eppure quel Parlamento fu messo al bando come «il Parlamento degli inquisiti» e sciolto anticipatamente da Scalfaro nonostante ci fosse ancora una maggioranza politicamente legittima. Lo stesso trattamento fu riservato agli altri partiti democratici, con una serie di condanne «politiche» che coinvolsero leader di partito che «non potevano non sapere» tra cui Arnaldo Forlani, un galantuomo di cui ieri sono stati celebrati i funerali di Stato.
L’uso politico della giustizia è rimasto una costante della seconda Repubblica, e secondo Luciano Violante la colpa di questa deriva va attribuita soprattutto «alla rinuncia della politica all’esercizio della propria sovranità in favore della magistratura», delegando ai giudici non i processi ai singoli imputati di mafia, di terrorismo o di corruzione, ma la stessa lotta alla mafia, al terrorismo e alla corruzione, rendendoli di fatto compartecipi della sovranità: un’autentica stortura democratica, dunque. La politica, in effetti, soprattutto dal governo Monti in poi, per obbedire all’ordalia giustizialista, si è consegnata mani e piedi alla magistratura mettendo in piedi un sistema sanzionatorio indefinito, con norme vaghe come l’abuso di ufficio o il traffico di influenze illecite, divenute armi potentissime a disposizione dei pubblici ministeri. Il vaso di Pandora scoperchiato da Palamara ha poi definitivamente tolto la foglia di fico all’obbligatorietà dell’azione penale, svelando l’esistenza di una discrezionalità dettata dal pregiudizio politico nei confronti di leader considerati una minaccia per la sinistra (emblematico il caso Salvini-nave Diciotti), e gli intrecci di un sistema in grado di condizionare l’azione di settori cruciali della magistratura. Dunque, la riforma della giustizia non è un’ossessione del centrodestra, ma un’emergenza certificata da milioni di cause pendenti, dai tempi biblici dei processi (più di sette anni per concludere i processi civili, più di tre per quelli penali), dai mille innocenti sottoposti ogni anno a custodia cautelare, dalla fiducia nella magistratura crollata ai minimi storici, dalle procure divenute controllori della morale invece che del diritto, dalle intercettazioni senza rilevanza penale date in pasto ai media, dagli avvisi di garanzia trasformati da strumenti di tutela in preventive condanne senza appello. È insomma una questione di civiltà giuridica da ripristinare.