Covid, prosciolto Fontana: un'altra vittima della malagiustizia
Un’altra vittima della magistratura ha visto mettere fine al suo calvario giudiziario. Attilio Fontana, presidente della Regione Lombardia è stato prosciolto anche in appello sul cosiddetto caso camici durante il periodo della pandemia Covid. Un’inchiesta che gli era piovuta tra capo e collo con l’accusa di frode in pubbliche forniture e inadempimento contrattuale per l’affidamento da parte della Regione Lombardia di una fornitura da 75mila camici e 7mila Dpi a Dama Spa società del cognato con un 10% delle quote in mano alla moglie di Fontana, Roberta Dini, per 513mila euro. Commessa poi trasformata in una donazione di 50mila camici. Ma i giudici della seconda sezione penale d’Appello del Tribunale di Milano hanno respinto il ricorso presentato dal sostituto procurato generale Massimo Gaballo che non era stato certo tenero nei confronti del governatore della Lombardia: aveva parlato di «ragionevole previsione di condanna» e «interesse pubblico» posposto a «interessi privati convergenti», sposando la linea dei pm Carlo Scalas e Paolo Filippini, contro il proscioglimento sancito già in primo grado il 13 maggio 2022 dal Gup di Milano Chiara Valori con la formula «perché il fatto non sussiste».
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Oltre che per il governatore e il cognato, proscioglimento anche per i coimputati Filippo Bongiovanni, ex direttore generale di Aria, la dirigente a capo dell’ufficio acquisti di Aria, Carmen Schweigl e Pier Attilio Superti, vice segretario generale di Regione Lombardia. «È finita come doveva finire. Tanta soddisfazione però quanto tempo e che spreco di risorse, quando ormai si era capito che un reato non c’era», commentano i legali di Fontana, Jacopo Pensa e Federico Papa, parlando di tre anni passati sulla «graticola». «Sono contento e mi aspettavo questa conferma ha scritto sui suoi profili social il governatore - perché ho sempre agito nell’interesse dei lombardi che ho l’onore di rappresentare». Per il governatore lombardo era questo il penultimo appuntamento con la «stagione giudiziaria» di inchieste nate durante la pandemia Covid. Domani è atteso a Brescia davanti al collegio del Tribunale dei Ministri nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Bergamo che vede 19 indagati per la mancata estensione della «zona rossa» in Val Seriana e ad Alzano Lombardo e Nembro a fine febbraio-inizio marzo 2020 e la non attuazione del piano pandemico (non aggiornato) del 2006. Secondo gli inquirenti e il consulente dei pm, Andrea Crisanti, tutto questo avrebbe risparmiato la vita a oltre 4.148 persone, di cui 55 ad Alzano e 108 a Nembro, evitando «la diffusione incontrollata» del virus. Fontana ha chiesto di essere sentito dai giudici che hanno già archiviato le posizioni dell’ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e dell’ex ministro della Salute, Roberto Speranza, accusati di omicidio colposo, epidemia colposa per omissione e rifiuti d’atti d’ufficio.
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Il capo d’imputazione del presidente lombardo è identico a quello dell’ex leader del Movimento Cinque Stelle (non risponde invece per la mancata attuazione del piano pandemico). Assieme a lui si presenteranno a Brescia l’ex capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, e l’allora coordinatore del Cts, Agostino Miozzo. Fontana ribadirà la sua posizione facendo alcune precisazioni sui tempi di e-mail e decisioni prese: non poteva istituire la zona rossa senza il via libera del Governo e informava costantemente Roma dell’andamento epidemiologico, tanto che la decisione di mettere l’Italia in lockdown matura dopo la visita di Speranza in Lombardia il 4-5 marzo 2020. A suo favore c’è l’ordinanza del Tribunale sul caso Conte-Speranza in cui in 29 pagine si parla di nessun «nesso di causa tra la mancata attivazione della zona rossa e la morte di persone». L’incognita, per il governatore lombardo e gli altri, è legata alla competenza dei giudici.
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