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Salario minimo per legge, parla Foti (FdI): "Penalizza proprio i lavoratori"

Mario Benedetto
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Il salario minimo anima il dibattito attuale sul lavoro, un ambito nel quale i risultati dell’attività di governo indicano l’efficacia rispetto alla strada imboccata, a partire dai numeri dei nuovi occupati. Con un tasso di disoccupazione, dopo anni, in netta discesa. Di lavoro e delle sue prospettive ha parlato in un colloquio con Il Tempo Tommaso Foti, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera dei Deputati.

Onorevole, rispetto alla questione dell’aumento dei salari e rispetto a quello «minimo», quale pensa sia la corretta via da percorrere?
«L’idea di trovare una legge che preveda i salari minimi costituisce, a mio avviso, un errore. Il problema è ben chiaro, però dobbiamo mettere in ordine un po’ di aspetti: il 97% dei contratti vigenti sono frutto delle contrattazioni collettive, portano la firma delle organizzazioni sindacali. Sulla contrattazione collettiva come sa la direttiva europea dice che bisogna procedere con legge nel caso in cui questa contrattazione collettiva copra meno dell’80% dei lavoratori e in Italia, torno a ripetere, siamo molto oltre questo limite».

 

C’è poi anche il possibile fraintendimento che il lavoro, o i miglioramenti nell’ambito del lavoro, possano essere prodotti «per legge» più che da regole che creino favorevoli condizioni di mercato...
«Esatto, il cuneo fiscale ovviamente ha una sua funzione, così come ha una sua funzione il fatto in generale di abbassare la pressione fiscale sul lavoro. Sono interventi a favore delle imprese e incentrate sui lavoratori. Ce lo dicono i dati dell’Istat: contrariamente a coloro i quali ogni giorno sostengono che siamo in una fase e con un governo che aumenta la cosiddetta precarizzazione, questi dati dicono che il numero di lavoratori dipendenti a tempo indeterminato è in aumento e mentre si riduce il numero di quelli a tempo determinato. Significa che non si va verso la precarizzazione ma invece verso la stabilizzazione. Il salario minimo, che poi sarebbe forse più corretto chiamare «dignitoso», va collegato ai contratti. E la via è quella dell’estensione, settore per settore, dei trattamenti economici complessivi dei contratti collettivi di lavoro maggiormente diffusi. Che peraltro sono quelli di cui parlavamo prima, sottoscritti dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative e che si attestano nella media ben sopra al limite dei 9 € previsti dalla legge. La contrattazione collettiva, peraltro, ha anche una dignità costituzionale evocata chiaramente all’articolo all’interno dell’articolo 39 della Costituzione. Questa contrattazione non solo può garantire una retribuzione oraria dignitosa a tutti i lavoratori, ma anche tutele e maggiorazioni, dalle tredicesime alla sanità, dalla pensione integrativa ai buoni pasto, dalle ferie agli straordinari sino al lavoro notturno».

 

Una contrattazione che tiene conto delle esigenze dei lavoratori e, con la sua periodicità, anche dei cambiamenti del mercato stesso...
«Corretto, per questo, per dirla in modo semplice, un buon contratto è sempre meglio di un’indicazione numerica fissata per legge. Questo strumento può servire in Paesi dove vi è una contrattazione collettiva debole. Ci sono poi ulteriori due ulteriori argomentazioni che secondo me andrebbero tenute presenti. La prima è che rischiamo, mettendo questa idea di perseguire la strada di una legge, che ai lavoratori venga chiesto di «accontentarsi» della legge rischiano di penalizzare la contrattazione. La seconda riguarda il rischio che questa sia solo una battaglia politica delle opposizioni e di certe rappresentanze sindacali. La proposta di legge su cui hanno raggiunto questo accordo prevede che vi sia un anno di tempo perché entri in vigore, allora come governo abbiamo chiesto: possiamo prenderci un mese circa di riflessione per vedere se riusciamo a trovare una forma diversa per raggiungere l'identico obiettivo?»

Favorendo anche la contrattazione collettiva di cui parla, immagino. E quale risposta avete avuto?
«La risposta è stata no. E allora c’è il rischio che la volontà sia solo quella di agitare la facile bandiera del salario minimo».

 

A proposito di rappresentanza, lei ha avuto un recente incontro con il segretario della Cisl, Luigi Sbarra. Com’è andato?
«Un incontro interessante incentrato sulla partecipazione dei lavoratori non soltanto agli utili, ma anche al capitale delle aziende. Devo dire che la proposta di legge d’iniziativa popolare per l'entrata dei lavoratori nella "vita" delle imprese ha due meriti. Il primo, di dare finalmente attuazione all’articolo 46 della Costituzione che da 75 in più anni non è mai stato attuato. In secondo luogo perché questa proposta di legge, per quanto ci riguarda, avvicina quel tipo di mondo del lavoro alla nostra concezione politica del lavoro, ma che direi ha anche radici in una concezione cristiana e solidale del lavoro, vicina anche alla dottrina sociale della Chiesa. La proposta ha il merito di offrire un modello in cui tra sindacato e tra lavoratore datore di lavoro s’instauri forma di collaborazione, cooperazione lontana dalla visione arcaica e poco realistica dello scontro tra "padrone" e lavoratore».

È un passaggio rilevante in termini economici ma anche culturali...
«Sì, il salario partorito da una concezione che non considera l’interesse dell’impresa, in un contesto di mercato competitivo, a gratificare il lavoratore che merita. Un avanzamento culturale anche rispetto all’idea di un sindacato moderno. Rispetto alla proposta di legge menzionata, parliamo di un sindacato che non ha paura a mettersi in gioco anche per quanto riguarda la partecipazione alla gestione. Ci sono poi diversi step di partecipazione, da quella consultiva e a quella gestionale». Dunque la funzione chiave per il futuro del lavoro è giocata dai ruoli tra le «parti» e da un nuovo modello del loro confronto... «Certamente, dobbiamo guardare al futuro dei lavoratori ed a uno sviluppo del mondo della produzione senza "nostalgie" e vecchi schemi. Sono sicuro che le soluzioni proposte garantiranno nuovi risultati per l’economia e la "cultura"del lavoro».

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