nulla di fatto
Da Renzi a Lupi, se il parente è scomodo: familiari messi sotto accusa e poi prosciolti
Le colpe dei padri non ricadano sulla testa dei figli. La massima biblica, citata in tre passi dell'Antico Testamento, è quanto di più lontano vi sia dalla politica italiana. Nei palazzi del potere infatti sono numerosi i casi di parenti indagati per reati di vario genere e natura che hanno indirettamente affossato i propri congiunti. Il più clamoroso e il più recente in ordine temporale è stato quello che ha coinvolto Matteo Renzi e i suoi genitori, Laura Bovoli e Tiziano Renzi. Per anni, l'ex premier è stato messo alla pubblica gogna e giudicato non tanto per le norme approvate, per le finanziarie trasformare in legge o per gli sbarchi di immigrati giunti in Italia. Ma per i propri genitori, fatti passare dal fuoco amico (ex «colleghi» del Pd, pseudo intellettuali progressisti e turbo grillini) come delinquenti della peggiore risma. Almeno fino alla tarda serata di venerdì. Quando è giunta la sentenza definitiva. Quella che mette un punto e a capo. La Cassazione ha infatti confermato l'assoluzione di Tiziano Renzi e Laura Bovoli dall’accusa di aver emesso due fatture per prestazioni inesistenti. Nello specifico, la terza sezione penale ha dichiarato «inammissibile» il ricorso del Procuratore Generale della Repubblica. Un verdetto che conferma la decisione con la quale la Corte di Appello di Firenze, il 18 ottobre 2022, aveva stabilito che i due coniugi andavano assolti con la formula piena: «perché il fatto non costituisce reato». E gli stessi che avevano urlato per anni, da venerdì tacciono.
Un caso del tutto analogo ha coinvolto anche Maria Elena Boschi. Che, all'epoca del renzismo, era una delle prime tre, quattro donne più potenti d'Italia. Il padre, Pierluigi, venne indagato e assolto due volte: per alcune consulenze svolte per Banca Etruria (istituto di credito di cui era stato vicepresidente) e, soprattutto, dall’accusa di bancarotta fraudolenta. «Oggi ho pianto come una bambina - scrisse sulla propria pagina Facebook l'ex ministro per le Riforme Costituzionali nel giugno 2022 - Si chiude un calvario lungo sette anni. Oggi la verità giudiziaria stabilisce ciò che io ho sempre saputo nel mio cuore: mio padre è innocente. E ora lo sanno tutti. Lo sa il popolo italiano, nel cui nome la sentenza è stata pronunciata. Lo sanno le Istituzioni di questo Paese che io ho servito con dignità e onore. Lo sanno gli avversari politici che mi hanno chiesto le dimissioni per reati che mio padre non aveva fatto. Lo sanno i talk che hanno fatto intere trasmissioni contro di me e di noi e che non dedicheranno spazio a questa vicenda». Parole che lasciano poco all'immaginazione. Frasi che trasudano dolore e rabbia per la gogna mediatica alla quale l'esponente di Italia Viva venne sottoposta. Con costanza chirurgica. Ma, sia ben chiaro, non si tratta di un esempio isolato. Uno dei principali accusatori di Meb, Beppe Grillo, ha dovuto recitare la doppia parte in commedia. Ha assaggiato sulla propria pelle il delirio di chi invoca ad ogni piè sospinto il tintinnio delle manette.
Nello specifico, il fondatore del Movimento Cinque Stelle ha dovuto prestare il fianco alle critiche quando il figlio Ciro, nel 2019, venne accusato, insieme a tre suoi amici, di aver violentato una coetanea. Nella villa (del padre), in Costa Smeralda. Accuse respinte dai ragazzi, che hanno sempre sostenuto come il rapporto di gruppo fosse «consenziente». Esemplare anche il caso di Federica Guidi, all'epoca ministro dello Sviluppo Economico. Negli atti dell’inchiesta sul petrolio in Basilicata dell’aprile 2016 vennero acquisite alcune intercettazioni. In una telefonata la Guidi, che non è mai stata indagata, parlò col compagno, Gianluca Gemelli (indagato e poi archiviato), dei progressi di un emendamento che potrebbe favorirlo. Non abituata a quel tipo di esposizione mediatica, l'ex vicepresidente di Confindustria si dimise. Impossibile, infine, non ricordare la vicenda di Maurizio Lupi. Nel 2015 il figlio ricevette, come regalo per la laurea un Rolex. Un dono che giunse da Stefano Perotti, coinvolto (lui) in un'inchiesta. Lupi (Maurizio), all’epoca ministro dei Trasporti, mai indagato, mai imputato, mai condannato fu costretto a dimettersi. Perché un amico di famiglia aveva osato fare un regalo al figlio per il 110 e lode. Un voto che, certamente, mai potrebbe prendere la politica italiana. Che tutto trita e tutto distrugge. Sempre a caccia del (presunto) colpevole. Ostinatamente condizionata dal delirio di chi invoca, ad ogni piè sospinto, il tintinnio delle manette.