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Il Pd fiaccato dagli scandali ora rivuole il finanziamento pubblico

Carlantonio Solimene
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La teoria ha un certo fascino: se oggi il finanziamento pubblico ai partiti non c'è più; se i giornali di partito sono rimasti senza soldi e hanno abbassato le serrande; se la figura dei funzionari di partito- nell'impossibilità di pagar loro gli stipendi- si è praticamente estinta; se, in sintesi, per chi fa politica la poltrona di parlamentare è l'unica possibile fonte di reddito, allora è da ipocriti scandalizzarsi se c'è qualcuno che, per mettersi in sicurezza, si mette a fare il lobbista, nella migliore delle ipotesi. O incassa tangenti, nella peggiore.

 

Il naturale corollario della tesi è il seguente: ritorniamo ai contributi statali e non avremo più scandali come il «Qatargate» che sta facendo tremare la sinistra. Ragionamento suggestivo, come detto, e finanche condivisibile. Se non fosse per due particolari. Il primo è che la corruzione c'era anche prima, quando i partiti erano generosamente foraggiati dal bilancio pubblico. E, d'altronde, il referendum del 1993 sull'abolizione del finanziamento ottenne un sì plebiscitario (90%) proprio sull'onda del più celebre di quegli scandali, Tangentopoli.

La seconda obiezione, invece, sta nel fatto che fu la medesima sinistra a schierarsi per lo stop ai fondi statali. Prima cavalcando il referendum del 1993, poi abolendo - con il governo Letta nel 2013 - anche i rimborsi elettorali che ne avevano preso il posto.

 

Eppure sono stati due esponenti del Pd non certo di secondo piano- il vicesegretario Giuseppe Provenzano e Gianni Cuperlo, in procinto di candidarsi alla segreteria- a indicare nella fine del finanziamento pubblico il padre di tutti i mali. Ed è stato incardidato al Senato un ddl per reintrodurlo firmato dal senatore Dem Andrea Giorgis. «Se sopprimi ogni forma di finanziamento della politica argomenta Cuperlo - rimanere nelle istituzioni diventa il traguardo a cui non puoi rinunciare. I soldi gli strumenti per conservare lo status. Le responsabilità sono sempre personali, ma paghiamo anche gli errori di questi anni, a partire dalla selezione dei gruppi dirigenti.

C'è il ritorno a un accesso patrimoniale alle cariche elettive. Chi non è nelle istituzioni non esiste». «Se negli anni passati - aggiunge Provenzano all'Huffington Post un'intera classe dirigente non ha avuto le palle, scusi il termine, per opporsi al vento populista, se siamo stati noi ad abolire il finanziamento pubblico ai partiti, allora vuol dire essere pronti a rinunciare al "professionismo della politica". È un errore, a mio avviso».

 

Dai rimborsi ai rimorsi il passo è breve. Male obiezioni restano. La prima: la battaglia culturale sul finanziamento pubblico non era il caso di farla quando la decisione di abolirlo fu presa? Ora che i buoi sono scappati non è tardi per chiudere il recinto? E ancora: come conciliano Cuperlo e Provenzano l'improvvisa sterzata anti -populista con l'auspicio a riallacciare i ponti col M5S, il «partito» più populista e anti -casta di tutti? E, infine, dopo giorni di imbarazzato silenzio, davvero l'unica riflessione arrivata da sinistra sul «Qatargate» (e sul caso Soumahoro) è sulla necessità di reintrodurre il finanziamento pubblico? Che fine ha fatto la questione morale? E il tradimento ideale di chi ha sfruttato il «bene» (le coop e le ong) per fare il «male» (corruzioni e tangenti)? E il fatto che lo scandalo abbia colpito solo la sinistra e non la destra? Davvero si può ridurre tutto questo all'assenza di contributi statali? Davvero si rimetterà tutto a posto con quello che Provenzano chiama «l'elogio del funzionario di partito»? Per il Pd, evidentemente, sì. Caso chiuso, compagni.

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