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Il Pd vuole diventare Padel. Pure Bonaccini sfotte l'idea: "Pensiamo a cose più serie"

Pietro De Leo
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Qualcuno li aiuti. Nel difficilissimo percorso di ricostruzione del Pd, in cui pensosi soffrono le pene dell'inferno per individuare proposta, alleanze, destino delle correnti, leadership, segreteria, messaggi pubblici, manifesto dei valori, c'è pure l'avvitamento sul nome. E siccome il paradosso di chi si piglia troppo sul serio è finire poi incartato nell'autocomicità involontaria, ecco servita l'ennesima storia da freddura umoristica. Sì, perché l'idea di unire il Partito Democratico al termine «Lavoro», emersa nel dibattito negli scorsi giorni, genera mostri. Anzi, un mostro. «Padel». Come il succedaneo del tennis che ha acceso una vera e propria mania in Italia, con impianti sorti un po' ovunque, vip, professionisti, persone comuni che sudano dandoci di racchettoni. Che sia questo il modo per il partito incagliato nel racconto ztl di diventare finalmente nazionalpopolare? No, certo. Ma trattasi di gaffe. Che ovviamente, essendo noi il Paese delle situazioni gravi ma non serie, ha tirato dentro i pretendenti alla leadership. «Mi piace molto il tennis ma anche il padel, ma il Pd deve essere un nuovo partito laburista con i lavoratori al centro» ha detto a Tg1 Mattina Stefano Bonaccini, uomo di mondo che dunque non disdegna l'ironia.

 

 

«Non credo che il problema sia il nome. Non credo che ci votano o non ci abbiamo votato perché ci chiamiamo Pd ma per le politiche che sappiamo fare. Mi interessa di più la sostanza». Prima di lui, a «Che tempo che fa» si era pronunciata sul tema la sua competitor, la compassata Elly Schlein. La possibilità del cambio di nome, aveva ragionato a «Che tempo che fa», su Rai3, «è uno dei temi che potremmo affrontare. La discussione del nome la faremo con le iscritte e gli iscritti ma non sarà PaDel». E correndo su su, lungo i giorni, si ritrova l'argomentazione di Matteo Lepore, sindaco di Bologna ed esponente della nuova generazione di amministratori. «Ho proposto di cambiare nome al Pd, facendolo diventare Partito democratico e del lavoro, le parole democrazia e lavoro sono importanti». Quanto all'acronimo: «Sarebbe Pdl? No, a questo punto potrebbe essere PaDel... scherzi a parte la mia è una proposta politica». Ovviamente l'ha presa a gioco, Lepore, considerando il contesto, ossia la trasmissione «Un giorno da Pecora», dove la politica discute dei temi con satira ed ironia. Dunque, Lepore ha confessato il delitto linguistico. E però la via che propone per uscirne non è il massimo: «Potremmo chiamarci anche Laburisti Democratici, con l'acronimo LabDem». Sì, vallo a spiegare, in un Paese di anziani, dove le pronunce inglesizzanti non sono mai troppo gradite. Al limite, sempre meglio far scegliere ai militanti. «Credo che far partecipare le persone per dire al Pd che deve tornare ad occuparsi di lavoro sarebbe una buona cosa».

 

 

Chi lo dice a questi signori che prima di loro fu Silvio Berlusconi a far scegliere il nome del partito ai militanti? Era il 2007, quasi a Natale, e in una campagna di gazebo in 10mila piazze italiane c'erano due opzioni, Partito della Libertà e Popolo della Libertà. Vinse la seconda. Ma va bene, il passato è il passato. Piuttosto, considerando il caos preventivo sul nome, ci permettiamo di anticipare un rovello. Se dovesse sopravvivere Partito Democratico (con o senza aggiunte) sono sicuri di tenerlo così, tutto al maschile?

 

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