Manovra, Letta sconfessa le sue idee pur di attaccare il governo
Che poi, provando a immedesimarsi per un attimo in un leader dell'opposizione, di motivi per criticare la prima manovra di bilancio del governo Meloni ce ne sarebbe uno su tutti. Il fatto cioè che - stringi stringi - nel testo licenziato dal Consiglio dei ministri ci sia poca traccia delle roboanti promesse formulate in campagna elettorale. Certo, il momento è quello che è - la crisi energetica, la guerra, il debito pubblico e via dicendo - ma la sinistra potrebbe facilmente obiettare che questi fattori erano già ben presenti prima del voto. E che, quindi, era meglio non farsi scappare troppo il piede sull'acceleratore degli impegni presi con gli italiani. Un aspetto, questo, del quale è consapevole la stessa Giorgia Meloni, che in conferenza stampa ha invitato tutti a considerare questa Finanziaria come solo la prima di cinque. Una sorta di «il meglio deve ancora venire».
Invece Enrico Letta, leader pro tempore del Pd, nel convocare subito la piazza contro il governo ha usato per la manovra un aggettivo piuttosto impegnativo: «iniqua». Nei confronti dei poveri, si intende. Una strada sulla quale, in tutta onestà, è difficile seguire il segretario Dem. Perché non solo il governo destina quel poco che era in grado di distribuire ai ceti più deboli. Ma lo fa addirittura sposando parole d'ordine tipiche della sinistra. Si prenda il taglio del cuneo fiscale. Nell'ultimo decennio è stato forse l'unica proposta concreta fatta dal centrosinistra. Ebbene, il governo Meloni non solo conferma i due punti già tagliati dal governo Draghi, ma sforbicia un altro punticino da destinare non a tutti, ma ai lavoratori più deboli: quelli che hanno un reddito inferiore ai ventimila euro l'anno. Troppo poco, si dirà. Ma è una misura che impegna comunque un terzo (4,2 miliardi) della parte «extra-bollette» della manovra. E, soprattutto, a dispetto di quanto pronosticato alla vigilia andrà a esclusivo vantaggio dei lavoratori. Un aspetto che non farà felice Confindustria ma che, teoricamente, dovrebbe accontentare i sindacati. Capitolo lavoro. In campagna elettorale Enrico Letta aveva ripetuto allo sfinimento la necessità di combattere la precarietà. Concetto un po' aleatorio, a dire il vero.
Eppure cos'è, se non lotta alla precarietà, la decisione del governo di azzerare i contributi per i contratti a tempo determinato trasformati in stabili? La decontribuzione, peraltro, vale anche per chi assume percettori del Reddito di cittadinanza. Il ché, se non altro, è un tentativo di incidere in quella che è la grande tara della misura grillina: le politiche attive. E cosa diceva del Sussidio in campagna elettorale il Partito democratico? «Occorre fare il tagliando al reddito di cittadinanza, affiancando al sostegno al reddito nel contrasto alla povertà, un forte e adeguato piano di politiche attive per riportare al lavoro gli inattivi».
Insomma, comprensibili le lamentele di Conte, che del Reddito è stato il padre, per la riduzione (soft) del sussidio agli occupabili. Assai meno quelle dei Dem, che come ha ricordato Meloni all'epoca del varo della misura erano piuttosto critici. Capitolo pensioni. Qui il governo ha provato a offrire un assaggio di quanto promesso in campagna elettorale. Quota 41 è diventata la meno dispendiosa «Quota 103». Pure sulla previdenza, però, l'approccio è stato favorire gli assegni più poveri se è vero che andare in pensione a 62 anni con 41 di contributi non converrà ai ricchi, visto che per cinque anni dovrebbero accontentarsi di un trattamento assai inferiore a quello maturato. Senza contare le rivalutazioni legate all'inflazione, che saranno del 120% per le pensioni minime e solo del 35% per gli assegni più alti.
Difficile, poi, definire «iniqua» la parte della Manovra dedicata alle bollette. Non fosse altro perché è sostanzialmente la prosecuzione delle misure previste da Draghi e votate entusiasticamente anche dal Pd. Con qualche correttivo che non dovrebbe scontentare la sinistra, come l'estensione del bonus sociale a chi ha un Isee pari a 15mila euro (prima era 12mila) e l'aumento della tassazione sugli extraprofitti delle aziende energetiche, che viene alzata dal 25 al 35%. Non è il 100% chiesto da Nicola Fratoianni in campagna elettorale, d'accordo, ma sicuramente un piccolo passo avanti. E ancora: l'estensione del congedo di maternità pagato all'80% per un altro mese non è un sostegno a quel lavoro femminile tanto decantato dal Partito democratico? E, per concludere, basterebbe citare le parole pronunciate dal Dem Francesco Boccia nel 2018, quando il primo governo Conte bocciò un emendamento che proponeva la riduzione dell'Iva per pannolini e prodotti per l'igiene intima femminile: «Si è persa un'occasione straordinaria per dare un segnale di vicinanza alle famiglie e ai problemi della vita quotidiana. Pannolini e assorbenti sono acquisti obbligati e devono costare molto meno».
All'epoca l'Iva sugli assorbenti era al 22%. Il governo Draghi l'aveva portata al 10. L'esecutivo Meloni l'ha ridotta al 5. Saranno così coerenti, al Nazareno, da riconoscere il passo in avanti fatto dal centrodestra? Una Manovra di sinistra, quindi? No, questo non si può dire. Così come è difficile anche sostenere si tratti di una Manovra di destra. Una Finanziaria di necessità, questo sì. Costruita in appena un mese con risorse limitate anche per non andare allo scontro con l'Europa e con i mercati, altro spauracchio agitato dal Pd in campagna elettorale. Ieri, per dire, lo spread è rimasto serenamente sotto i 200 punti base. Il governo dei «distruttori dei conti pubblici» per ora è stato assai più «europeista» del previsto. E anche questo, a sinistra, non dovrebbe dispiacere.