Le donne dopo il boom Meloni scoprono che il Pd è misogino
Quando trasformi ogni pertugio del confronto pubblico in una Guerra Santa Moralistica, poi il rischio contraddizione è amplificato. Viene da pensarlo scorrendo la sofferta fase post elettorale del Pd, in cui accanto alla ghigliottina dei numeri, emerge la debacle su una delle battaglie a lungo rivendicate in questi anni, quella per la questione femminile, la valorizzazione del ruolo della donna nella società e nella rappresentanza. Mentre il centrodestra si avvia ad indicare al Capo dello Stato il nome di chi guiderà il prossimo governo, e sarà una donna per la prima volta, nel Pd si scorre il rosario delle lamentazioni a mezzo stampa, l'ultima ieri Simona Malpezzi, capogruppo uscente del Senato, che traducono in allarme politico la sostanza di quel numero perentorio: appena il 30% degli scranni sarà occupato da una parlamentare. Nel mentre, vergando la sua lettera con le tappe verso il prossimo congresso, Enrico Letta si premura di rivolgerla «alle iscritte e agli iscritti», con quello scrupolo lessicale che definisce il senso di un problema. Nei patemi dei «day after» emerge tutta la voragine tra forma e sostanza, tra psicopolizia del linguaggio e illusione che basti cambiare una vocale per cambiare il mondo. Il senso di questo sia nelle dinamiche di Palazzo che fuori. A quest' ultima categoria, per esempio, va annoverata la cattiva accoglienza che le femministe di «Non una di meno», scese in una manifestazione preventiva a protezione della legge 194 che però il centrodestra non ha alcuna intenzione di modificare, hanno tributato all'ex Presidente della Camera Laura Boldrini. Proprio lei, la paladina del femminismo iconografico, scattante correttrice di ogni malcapitato che, parlando di donne con un qualche incarico, si azzardasse a pronunciare ancora «assessore» invece di «assessora», o «ministro» in luogo di «ministra».
Proprio lei, che condusse una strenua battaglia contro gli spot televisivi recanti un quadretto familiare in cui è la mamma a portare a tavola la pirofila della pasta. E non va meglio dentro il Palazzo. Perché al di là delle singole aspirazioni mortificate (tipo quella di Monica Cirinnà, paladina delle campagne Lgbt, candidata in posizione proibitiva e non rientrata in Parlamento) si riassume il senso di un Pd che ha affrontato il tema femminile con molti predicozzi e pochi buoni esempi. La polemica più recente, per esempio, riguardò la segreteria di Nicola Zingaretti e i nomi di ministri indicati per il governo Draghi, tra i quali non compariva nemmeno una donna.
Ma nei quindici anni di vita spericolata le mancanze sono più d'una. Non c'è mai stata, per esempio, nessuna segretaria alla guida del Nazareno. Alla voce del presidente va leggermente meglio, ma non tanto, appena due donne: l'attuale Valentina Cuppi, non eletta in Parlamento, e Rosy Bindi, dal 2009 al 2013. Ma stiamo parlando di un ruolo più di prestigio che di potere e visibilità.
Nessun nome in rosa per la guida delle principali città italiane, come Milano, Roma, Napoli, Bologna e Palermo. Il punto forse più alto, a questa voce, si ebbe nella tornata del 2016: il Movimento 5 Stelle dilagava a Roma e Torino vincendo con Virginia Raggi e Chiara Appendino. Fratelli d'Italia e Lega schieravano Giorgia Meloni (che sfiorò il ballottaggio per un soffio) nella Capitale e il Pd non piazzava nessun acuto femminile. Anche in questo caso, dunque, è l'abbraccio del politicamente corretto in salsa rosa la morsa da cui deve liberarsi il Pd, affrancandosi dal vuoto pneumatico delle parole.