Cerca
Cerca
Edicola digitale
+

Il Pd ora odia Letta. “Ha sbagliato tutto”, gara a chi lo scarica per primo

Esplora:

Carlantonio Solimene
  • a
  • a
  • a

Verrebbe da chiedersi cosa sarebbe accaduto, nel Partito Democratico, se Enrico Letta avesse deciso di seguire i primi istinti dopo la debacle alle urne e si fosse dimesso direttamente da segretario. Perché è bastato semplicemente che il leader annunciasse l’intenzione di non ricandidarsi al prossimo congresso, pur restando alla guida del partito fino a quella data, per scatenare contro di lui il più classico tiro al piccione. «La rottura con il Movimento 5 Stelle è stata frettolosa» gridano in coro le «vedove» di Giuseppe Conte, cui dà voce il solito Goffredo Bettini. Ed è superfluo ricordare come, nella Direzione in cui Letta annunciò l’esclusione dei grillini da ogni tipo di alleanza, non ci fu un piddino che fosse uno a esprimersi in dissenso. «Non si poteva far passare un messaggio di divisione all’esterno» è la giustificazione ufficiale. «C’erano le liste da comporre e nessuno voleva rischiare il posto» è invece la verità. La transizione, si diceva. Letta resterà segretario ancora per qualche mese. Un periodo nel quale andranno scelti i capigruppo di Camera e Senato oltre che altri ruoli «istituzionali» (vicepresidenze delle Camere, presidenti di commissioni eccetera). Quindi ai big non conviene ancora andare allo scontro frontale. Chi invece non ha più nulla da perdere la lingua non se la morde, anzi. «Se il segretario mi ha chiamata durante questa campagna elettorale? Non l’ho sentito e mai più lo sentirò» chiosa gelida Monica Cirinnà, sconfitta pesantemente nell’uninominale, prima di rivendicare che «non ho perso io, ma il partito».

 

 

Più articolato l’attacco di Matteo Orfini: «Ho fatto in campagna elettorale 5.000 km in 20 giorni, decine di incontri. Non ho trovato praticamente nessuno felice di votare il Pd. Per questo non mi convince chi oggi ci spiega che andava tutto bene, il problema è solo non essere riusciti a fare le alleanze». Eppure, incredibile a dirsi, pur avendo di fronte una traversata all’opposizione che rischia di essere lunga, è proprio dalle alleanze che tutti vorrebbero ripartire. E, ovviamente, dal rapporto con i Cinquestelle. Lo dicono senza mezzi termini i sindaci che governano grazie al «campo largo», come il napoletano Gaetano Manfredi o il bolognese Matteo Lepore. E lo sostengono altri esponenti di peso come Francesco Boccia. Mentre Antonio Decaro, primo cittadino di Bari, parla addirittura di «modello da smantellare. Perdiamo tutte le elezioni politiche, vinciamo quelle locali». «Partito da rifondare» ha chiosato il tesoriere Walter Verini. Il congresso insomma non ha ancora una data, ma di fatto è già cominciato. E non sarà neanche così rapido come si augura il segretario uscente. Prima ci saranno i passaggi istituzionali di inizio legislatura, poi verrà il momento di pianificare scelte e alleanze per le Regionali più prossime (Lazio, Lombardia, Friuli). Se ne parla, se tutto va bene, a marzo-aprile, altro che gennaio. E così chi punta seriamente alla segreteria al momento tiene le carte coperte. Si fa avanti chi ha meno chance di farcela, come il sindaco di Pesaro Matteo Ricci o la lettiana Paola De Micheli. I bookmaker guardano altrove. Dario Franceschini è dato a 2,40, Andrea Orlando a 2,91, Stefano Bonaccini insegue a 4,15. È quest’ultimo il nome su cui si concentrano le principali attenzioni.

 

 

Sarebbe il preferito da Base Riformista, l’area uscita maggiormente penalizzata dalla composizione delle liste. È per questo viene guardato con grande sospetto da tutti gli altri. Lui, ovviamente, si tiene defilato, dice che «non è il momento di parlare dei nomi», ma aspetta semplicemente che qualcuno invochi la sua discesa in campo. E poi ci sarebbe la sua vicepresidente in Emilia Romagna, Elly Schlein, alfiera dei diritti civili. Anche se è difficile immaginare una sfida congressuale tra un governatore e la sua seconda. Cosa accadrebbe in caso di vittoria dell’uno o dell’altra? Nel frattempo, a sorpresa, Letta deve accontentarsi del sostegno di un «esterno», quel Pier Ferdinando Casini rieletto al Senato grazie ai voti di sinistra nel collegio rosso di Bologna: «Se pensiamo che il problema del Pd sia Letta andiamo poco distanti. Scaricare su di lui contraddizioni che arrivano da lontano è assai ingeneroso, come era forse eccessivo pensare che chiamandolo da Parigi sarebbe arrivato con la bacchetta magica». Il tutto, sottolinea, detto da «indipendente». In campagna elettorale, l’ex Dc aveva detto di essere pronto a prendere la tessera del Pd. Ora, a quanto pare, ci ha già ripensato. Accodarsi a una bad company non è poi così allettante.

 

Dai blog