retroscena

Elezioni politiche 2022, ora gli Stati Uniti puntano su Giorgia Meloni

Luigi Bisignani

Caro direttore, ora che il vento di centrodestra soffia forte verso Palazzo Chigi con Giorgia Meloni premier in pectore, le cancellerie di Parigi e Berlino hanno inserito la retromarcia sull’abbondante veleno versato durante la campagna elettorale italiana. Anche da Washington, dopo le fake news messe in giro sulle operazioni clandestine della Russia in 120 Paesi, è arrivato uno stop ai pregiudizi su un possibile governo italiano di centrodestra. A premere per togliere dai sospetti l’Italia è stata una diplomatica di grande esperienza come Victoria Nuland, attualmente sottosegretaria USA per gli Affari politici, la quale, nel suo lungo cursus honorum, ha servito ben cinque presidenti e undici segretari di Stato. La democratica Nuland ha così messo in riga il dipartimento di Stato e il desk europeo della CIA, sottolineando non solo che nel dossier non si parlava di partiti italiani, ma che la carta Meloni può essere importante per la Casa Bianca, non essendovi dubbi sulla chiara appartenenza atlantica di Giorgia.

L’idea di fondo è che sia meglio una Meloni forte, che balla da sola, e dunque stabilizzante, anziché costretta a fare compromessi con Salvini e Berlusconi, considerati amici «dell’odiato Putin». A favore di Giorgia premier, per gli Usa gioca anche l’atavica diffidenza, reciproca, verso gli euroburocrati di Bruxelles, un atout importante per insidiare, secondo Washington, l’asse Francia-Germania. Magari è proprio questa la ragione dell’accesa avversione di Berlino e Parigi per la Meloni e il suo centrodestra nelle prime settimane di settembre. Una arrogante campagna offensiva alimentata soprattutto dal Nazareno con nomi e cognomi precisi: Enrico Letta, Paolo Gentiloni e Franco Bassanini, da sempre - e per ragioni che un giorno bisognerà pur chiarire - pappa e ciccia soprattutto con la Francia, ma anche con la Germania. In loro compagnia Andrea Orlando che, con la devota Francesca Bria, a tempo perso piazzata nel Cda della Rai e moglie dell’intellettuale bielorusso Evgenij Morozov, ha tenuto rapporti intimi con Berlino, favorendo così le scorribande di Letta junior con il cancelliere tedesco Scholz e con il presidente del partito socialdemocratico-Spd. Proprio quest’ultimo, imbeccato dal segretario piddino, ha parlato del rischio della scivolata «postfaschistischen» in Italia, seguito, qualche giorno dopo, dall’infelice minaccia della maestrina Ursula von der Leyen.

  

 

 

 

 

La stampa sia francese che tedesca ha attaccato perché senza i propri ascari in Italia teme che la Meloni passerà molto più tempo a consultarsi con Londra e Washington che con Parigi e Berlino. Nel frattempo, qualcosa di interessante si muove anche sul piano politico sull’asse Berlino-Roma. Nelle stanze della Fondazione Sturzo, in via delle Coppelle, si è insediato da qualche mese un piccolo ufficio della Fondazione Hanns Seidel, associata al partito della Csu, l’Unione cristiano-sociale, i cugini bavaresi della Cdu, l’Unione cristiano-democratica tedesca, entrambe appartenenti all’area di centrodestra. I bavaresi sono piuttosto manovrieri e alcuni pezzi grossi del Partito Popolare Europeo, come Manfred Weber, sono di quelle parti. Perché tanto interesse per l’Italia proprio ora? La verità è che il Ppe è messo male. Alcuni dei suoi membri, come Forza Italia, sono con un piede nella fossa e alle elezioni europee del 2024 potranno offrire un contributo di voti davvero poco significativo. Servono, dunque, «donatori di sangue». E proprio Giorgia Meloni potrebbe venire in soccorso. Fa infatti parte dello Ecr, il raggruppamento europarlamentare di cui un tempo facevano parte i Tories inglesi, e l’ipotesi di un’aggregazione tra Ppe e Ecr è da qualche tempo sui tavoli che contano. Un mondo che cambia, anche se il ragionamento che va ormai impostato sulla politica estera è quasi un ritorno al passato: oggi «Democrazia» contro «Sistemi Autoritari», ieri piano Marshall contro patto di Varsavia. L’Italia, che nel ’48 contrapponeva De Gasperi a Togliatti, dal Dopoguerra è schierata dalla parte della Democrazia rappresentata a livello internazionale dall’euro-atlantismo, con i due partiti principali a simboleggiarlo: FdI, quello più atlantico e meno europeo, il Pd, più europeo, meno atlantico. Le lancette della storia tornano dunque indietro: da un lato, le democrazie occidentali che, magari sbagliando candidati, eleggono con votazioni popolari i propri premier e, dall’altro, quei paesi autoritari come Cina e Russia i cui presidenti si autonominano a vita. Spiace che il centrodestra sia caduto nelle trappole di Letta e del suo apparato mediatico, ampliate con l’Ungheria di Orban e la Spagna di Vox, fenomeni comunque marginali per l’elettorato italiano. Meglio per Berlusconi, Salvini e Meloni sarebbe stato combattere davvero uniti, non stuzzicarsi a vicenda e magari intestarsi, con i fondi del Pnrr, una grande opera per il Sud come il treno ad alta velocità da Trapani a Berlino, attraversando finalmente il Ponte sullo Stretto. Sarà in grado Giorgia di costruire ponti e dimostrare che la gabbiana di un tempo è diventata un’aquila che vola in alto, capace di circondarsi, come fece il primo Berlusconi, delle intelligenze più vive del Paese? Dobbiamo augurarcelo, ma solo ottenendo una maggioranza chiara e netta altrimenti, ancora una volta, sarà Mattarella a scegliere e magari, suggestionato dai veleni disseminati ad arte nei mesi scorsi da Parigi e Berlino, si inventerà un nuovo Conte, facendoci restare impantanati in quel caos dal quale non è riuscito a tirarci fuori nemmeno uno come Mario Draghi, vittima anche lui della sindrome napoleonica che colpisce tutti i neofiti della politica catapultati a Palazzo Chigi.