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Elezioni 2022, astensione, urne estive ed esito scontato. Le incognite sull'attendibilità dei sondaggi

Carlantonio Solimene
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«I sondaggi non sono un oracolo ma una fotografia, che richiama sempre di più l’immagine del fixing della Borsa: vale oggi ma domani è già superato». Sono le parole con le quali Nando Pagnoncelli, presidente di Ipsos, ha commentato l’ultima rilevazione realizzata dalla sua società per il Corriere della sera prima che da oggi scattasse il divieto di pubblicazione di nuove indagini statistiche sulle elezioni. Un’affermazione significativa, perché arriva da uno dei massimi esperti del campo. Ma, al tempo stesso, abbastanza scontata e dovuta: specie se si tiene conto di quanto accaduto nelle ultime competizioni elettorali. In cui gli istituti demoscopici hanno sostanzialmente «toppato» le previsioni.

L’elenco è lungo. E comincia dal 2006, l’anno in cui l’Unione prodiana avrebbe dovuto vincere le elezioni con una certa tranquillità e alla fine si trovò invece a gestire un sostanziale pareggio con il centrodestra. Prima dello stop alle pubblicazioni tutti i principali istituti davano i prodiani circa 4 punti avanti alla coalizione guidata da Berlusconi: intorno al 51% i primi, poco sopra il 47 la seconda. Alla fine i voti di differenza, per la Camera dei deputati, furono meno di 25mila, e ne seguì una lunga polemica su presunti brogli. Ma l’esito più immediato fu la nascita di una maggioranza al Senato così risicata da reggere meno di due anni. E solo grazie al «sacrificio» dei senatori a vita, «trascinati» a Palazzo Madama ogni volta che l’esecutivo era a rischio.

Errori ben più marcati sarebbero arrivati in seguito. Come nel 2013, quando Bersani sembrava destinato a una facile vittoria - nel Pd già si parlava di «Palazzo Pigi» - e invece l’inaspettato boom dei Cinquestelle fece saltare in aria i piani dei Dem. Il Movimento era stimato intorno al 16% negli ultimi sondaggi, raccolse il 25,5. Un po’ l’inverso accadde un anno dopo alle Europee. I Cinquestelle stimati al 25 si fermarono al 21, ma la vera novità fu il Pd di Renzi. Veniva quotato al massimo al 33, superò il 40%.

Fu quella l’occasione in cui si cominciò a discutere delle metodologie di raccolta dei dati e della necessità di aggiornare i campioni. Servì a poco, perché nel 2018 tutto si complicò con il Rosatellum che, mischiando proporzionale e uninominale, rendeva di fatto una lotteria ipotizzare la futura composizione del Parlamento. E infatti le proiezioni dei seggi furono sballate. Alla Camera i 5 Stelle dovevano ottenerne 145 e invece raggiunsero i 221 parlamentari grazie al boom nei collegi uninominali del Sud. Tutto a discapito di centrodestra (da 281 seggi ipotizzati a 265 reali) e centrosinistra (da 166 a 122).

E così veniamo all’oggi. Dove all’incognita Rosatellum se ne aggiungono almeno altre tre: il primo voto «post estivo» della storia repubblicana, l’altissimo numero di indecisi e il risultato apparentemente scontato delle elezioni. Le ultime rilevazioni pubblicate hanno registrato scostamenti significativi, talvolta superiori ai due punti percentuali: tali sono il crollo del Partito democratico e quello della Lega, così come l’avanzata dei Cinquestelle. Possibile che l’elettorato sia così volubile da cambiare idea in massa solo da una settimana all’altra? È una delle domande ricorrenti in questi giorni nelle segreterie dei partiti. E poi: l’astensione si manterrà davvero così alta come emerge oggi dai sondaggi, ovvero intorno al 35%? Ed eventualmente, chi ne pagherà maggiormente lo scotto? Il centrodestra per l’appagamento del proprio elettorato convinto di avere la vittoria in tasca o il centrosinistra per lo scoramento di chi dà già per persa la battaglia? In altre parole, chi sceglierà di andare al mare in una domenica di fine settembre che, in quanto al clima, i meteorologi assimilano a quelle agostane?

La realtà è che nessuno, come ammette con onestà Pagnoncelli, può illudersi di anticipare il risultato. Per fortuna, verrebbe da dire. La parola resta agli italiani. E alla loro innata capacità di essere imprevedibili.

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