Elezioni, l'ultimo tragico Letta: insulta Livorno e si lagna della legge elettorale targata Pd
L’ultima gaffe parte da una battuta. Domenica sera, festa regionale dell’Unità, in Toscana. E più precisamente Pisa, città natale di Enrico Letta. Che, forse ritenendosi tra amici, si lascia andare a un’esclamazione calcistica: «Forza Pisa, Livorno merda». Non lo sentono in tanti. Ma quei pochi fanno girare la voce. Che arriva alla sezione livornese di Potere al Popolo. I social fanno da grancassa all’attacco: «È questo il piano del segretario Pd per la nostra città...». Segue piccolo caso mediatico.
Probabilmente la vicenda si sgonfierà rapidamente, anche se sul calcio è meglio non scherzare (il milanistissimo Salvini, per dire, non si è mai sognato di prendere in giro gli interisti). Fatto sta che l’incidente è la degna ciliegina di una torta elettorale, quella cucinata dal leader Dem, decisamente indigesta. Fuor di metafora, da quando è partita la corsa alle urne il buon Letta non ne ha imbroccata una. E i sondaggi sono unanimi: il Pd non solo non accorcia il suo distacco nei confronti di Fratelli d’Italia, ma continua a perdere terreno.
Sempre ieri il segretario ha tenuto a rapporto i candidati Dem e ha serrato i ranghi. «A causa di questa pessima legge elettorale e del taglio dei parlamentari - ha detto - il centrodestra rischia di ottenere il 70% delle prossime Camere con il 43% dei voti». Vero o falso che sia, Letta ha omesso due particolari. E cioè che tanto il Rosatellum che la riduzione degli eletti sono stati votati dal Pd. Sarà pure vero che all’epoca l’ex premier era in Francia a fare il professore. Ma puntare il dito su due scelte deleterie del proprio partito non sembra il miglior viatico per rilanciarsi nei sondaggi.
«Bisognerebbe ringraziare Enrico, praticamente fa campagna per noi» ha chiosato perfidamente l’antico nemico Matteo Renzi. Ed è difficile dargli torto. Letta ha aperto la corsa elettorale all’insegna dell’Agenda Draghi seppellendo, in suo nome, la faticosa alleanza con Giuseppe Conte. Poi, però, si è accordato con gli anti-draghiani Fratoianni e Bonelli. Ha siglato un’intesa programmatica con Azione di Calenda ma poi si è incartato in una coalizione a geometria variabile tentando di coprirsi anche a sinistra. Il risultato? Ha finito per perdere consensi su entrambi i lati. I progressisti spiazzati dall’infatuazione draghiana e si buttano sul M5S. I nostalgici del premier dimissionario gli preferiscono Renzi e Calenda.
Restava l’immortale arma dell’antifascismo. Che aveva funzionato in Emilia Romagna a vantaggio del governatore Stefano Bonaccini. Ma era un’altra epoca. Nel frattempo Letta con Salvini ci aveva fatto addirittura un governo. E con Giorgia Meloni aveva inaugurato una corrispondenza di amorosi sensi, fatta di appuntamenti comuni in pubblico e sigillata dalla partecipazione del segretario Pd ad Atreju. Difficile dare della possibile dittatrice alla leader di Fratelli d’Italia dopo averla legittimata come interlocutrice per mesi.
Sul programma meglio tacere: l’esordio con tassa di successione in una fase in cui di nuove tasse non vogliono sentir parlare neanche a sinistra. E poi il lancio della piattaforma all’insegna di Ddl Zan, cannabis terapeutica e Ius Scholae. Temi nobili, per carità. Ma - come dire... - un po’ lontani dall’attuale sensibilità dell’elettorato. Infine, vista l’antifona, la virata a sinistra tra difesa del Reddito di cittadinanza, salario minimo e stop al Jobs Act. Peccato che su quel terreno avesse ormai piazzato le tende l’ex alleato Conte.
Poche idee, confuse e ondivaghe. Abbastanza per determinare il destino del segretario, condannato a essere giubilato dai suoi all’indomani del voto. Si fanno pure i nomi dei possibili sfidanti al prossimo congresso, Bonaccini e l’ex ministro Beppe Provenzano. Letta sarà così, in neanche quindici anni, il nono segretario bruciato dal Pd. A naso, uno dei meno rimpianti.