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Pronti i dossier per fermare Giorgia Meloni. Servizi segreti in allerta: il tentativo è di non farla governare

Luigi Bisignani
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Caro direttore, nella «House of the Dragon» romana iniziano a rotolare le prime teste. Quella di Francesco Caio, inopinatamente messo in Saipem dal «Cencellino» Giavazzi, è saltata, scortata da una liquidazione di oltre tre milioni in aggiunta ai 150mila euro di contributi pretesi dall'ex Ad che per averli ha battagliato come una qualsiasi colf. Per un super draghiano che va, piccoli Grisù arrivano, last minute, due ne ha piazzati Patrizio Bianchi, ministro dell'Istruzione, una nel cda e una alla presidenza di Indire, l'ente di ricerca della scuola, una Vittorio Colao, ministro dell'Innovazione tecnologica, la sua Elena Grifoni al nuovo ufficio per l'aerospazio di Palazzo Chigi, mentre Roberto Cingolani, ministro della Transizione ecologica ha imbarcato altri esperti. Il tutto sempre all'insaputa di Super Mario? E poi ancora si parla del Governo dei migliori. Con Enrico Letta che, prima dell'arrivo in Italia di Thomas Bach capo del CIO per un'ispezione, sta facendo di tutto per piazzare, come Ad di Milano-Cortina il suo Michele Uva, «cocco» preferito anche della famiglia Napolitano. Scoraggiato da una campagna elettorale flop, Letta ormai è capace solo di sproloquiare contro il centrodestra che a suo dire, con la Meloni al governo, porterà il Paese alla bancarotta.

Laddove, sull'energia poco o nulla è stato fatto, salvo un inconcludente «safari del gas» in Paesi in cui gli impianti sono ben lontani dall'essere operativi. Basti menzionare il Congo, dove nell'estrazione del gas, Eni è in società con la russa Lukoil, orfana del presidente che pochi giorni fa è «volato» dalla finestra di una clinica di Mosca. Oppure l'Angola, dove il gas non è stato proprio trovato e comunque, anche qualora ci fosse, non c'è l'ombra di un'infrastruttura o, peggio ancora, il Mozambico, dove l'Eni ha già venduto il gas a British Petroleum. Un capitolo a parte, quello dell'energia elettrica: non possiamo importare corrente dalla Francia perché la metà delle centrali nucleari è in manutenzione, quindi ci mancano 40 Terawatt. Così come non vedremo, per almeno altri 20 mesi, gli 8 gigawatt di rinnovabili promessi dal novello Archimede Pitagorico Cingolani, rintanato nella sua Genova anziché Roma, a presidiare il ministero, ma sempre più spinto dal suo main sponsor Claudio Descalzi come futuro «illuminato» superministro dell'Energia, tuttavia non sarà facile far dimenticare a Giorgia che fu raccomandato da Grillo in persona.

 

 

Tornando al «piano gas», il rigassificatore di Piombino, sul quale la Meloni ha dato luce verde con buona pace del Sindaco, è previsto che entri in funzione a gennaio 2023, Snam invece parla di marzo mentre il mercato stima il primo trimestre 2024. Con Draghi, alla fine, siamo rimasti senza pace, senza luce e quest'inverno pure al freddo, con l'inflazione galoppante, la recessione alle porte e con la CDP del suo «boy» Dario Scannapieco impallata. In caso di vittoria di Giorgia Meloni, peraltro molto apprezzata dall'ex Segretario di Stato Usa Mike Pompeo, difficilmente si riuscirà a fare peggio e non ci saranno nemmeno gli sfracelli che paventano i suoi avversari. Giorgia, donna, madre, cristiana e patriota, sinora ha giocato bene le sue carte e, negli uffici studi delle banche d'investimento internazionali, dove è stato recapitato il programma elettorale delle due coalizioni, si comincia a capire la visione pragmatica della società che il centrodestra propone. Nella memoria di inizio carriera di tanti broker internazionali, oggi affermati manager, è ancora vivo, il ricordo di ciò che accadde nel 2011, quando a costringere alle dimissioni il IV governo Berlusconi in avvento di Mario Monti furono la Bce di Mario Draghi, che stava per insediarsi a Francoforte, e del suo factotum Daniele Franco - oggi ministro dell'Economia - oltre alla speculazione finanziaria scatenata dalla tedesca Deutsche Bank che decise, senza alcun valido motivo, di vendere i titoli di Stato italiani in portafoglio.

I fondamentali economici dell'Italia a fine 2011 erano solidi, anche più di oggi, come riconobbe persino il Consiglio europeo, che approvò, senza sollevare eccezioni, le politiche dell'allora ministro Giulio Tremonti. Il pregiudizio era semmai, allora come adesso, politico o personale nei confronti di chi, Berlusconi, aveva per primo messo in luce le criticità di un eccesso di austerità nella gestione delle politiche economiche e monetarie europee. Posizione rivelatasi poi giusta proprio con il successivo «Whatever it takes» dello stesso Draghi e, in tempi più recenti, con la definizione del grande piano di ripresa post-Covid, il Next Generation EU, che va proprio nella direzione indicata con largo anticipo da Berlusconi.

 

 

Ma, a quei tempi, il premier italiano dava fastidio e doveva essere eliminato a ogni costo. Così come si proverà a fare con Meloni e con le persone a lei più vicine, contro cui stanno cercando di montare una campagna di veleni alla quale persino alcune manovalanze dei bassifondi dei servizi, magari in pensione, non sarebbero estranee. E fanno bene i due capi dei servizi, AISE e AISI, generali Caravelli e Parente a vigilare. Sulle manovre economiche, è bene ricordare che le misure più impopolari, e forse anche più di destra, in Italia le hanno varate governi di sinistra come, per citarne alcune, le liberalizzazioni di Bersani e l'abolizione dell'articolo 18 di Renzi. I governi di centrodestra sono invece sempre andati cauti, anche perché sotto l'occhio costantemente vigile di tutti gli osservatori, nazionali e internazionali che sul Pd, invece, con l'aiuto anche di una certa magistratura militante, li chiudono entrambi. Da qui al 25, ne vedremo delle belle. Prepariamo i popcorn.

 

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