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Elezioni, il ritratto di Carlo Calenda: un tuttologo sceso in politica

Claudio Querques
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Se hai un nonno lombardo-valdese che ha il tuo stesso nome, ambasciatore a Tripoli nel 1969, ministro plenipotenziario in Libia, e una madre che si chiama Cristina Comencini, che è figlia di Luigi, l’altro nonno regista, non hai molte scelte. O ti ritiri nella tua tenuta, fai magari l’agricoltore, metti l’etichetta sul miele e sui pomodori Bio o accetti la sfida. Carlo Calenda ha fatto clic sulla seconda opzione: ha raccolto l’eredità genetica e ne ha fatto nutrimento per il suo smisurato ego. «Mio nonno è stato un modello per me, uomo tosto, caratteraccio ma colto e con un grandissimo senso delle istituzioni», raccontò in un’intervista, descrivendo il suo avo e in fondo anche se stesso. Per capire qualcosa di Carlo jr bisogna dunque partire da qui. Dal suo culto degli «antenati». Dal timore di deluderli, non reggere il confronto con il padre del padre, dalle sue competizioni compulsive. Fin da piccolo. Eccolo allora, Carletto, 9 anni. 1981. I bambini che fanno cinema, e diventano piccole star spesso sono destinati a soffrire da grandi. Se il successo gli gira le spalle, se vengono messi da parte. Lee Aaker, l’attore-bambino di Rin Tin Tin, dopo aver lottato per liberarsi dalla dipendenza da alcol e droga, in preda a turbe psichiche e disturbi della personalità, morì indigente. Carlo no. Faceva la quarta elementare quando recitò con Eleonora Rossi Drago nello sceneggiato Cuore, romanzo strappalacrime di Edmondo De Amicis. Dietro la macchina da presa c’era nonno Luigi, il padre di sua madre e della Commedia all’italiana. L’altro nonno. Poi per lui più niente, neanche un Carosello. Il luminoso orizzonte era comunque segnato.

 

 

Precoce in tutto, padre quando gli altri hanno i brufoli e sono ancora figli, a soli 16 anni. Il primo lavoro, il porta a porta per vendere polizze, la gavetta esibita con orgoglio. Sempre con quel cognome ingombrante, un peso per chiunque avesse desiderato una vita semplicemente normale. La maturità classica tra biberon e pannolini al liceo Mamiani. L’università a «La Sapienza», la laurea in Giurisprudenza con quella amnesia da smemorato sul voto («105 o 107?, non ricordo...»). Un cursus senza infamia e soprattutto senza la lode che t’aspetteresti dal nipote di cotanto nonno. L’anatomia del predestinato incompiuto sarebbe monca se non citassimo le «canne» che il giovane Carlo non disdegnava e non ha mai rinnegato. Uno spinello «ma solo ogni tanto per provare». L’allegra brigata degli amici di Roma nord, le frequentazioni parioline. Lo stage alla Ferrari, il rapporto desublimante con Luca Cordero di Montezemolo, («...continuo a dargli del lei»), l’esperienza in Confindustria, direttore degli Affari internazionali; il matrimonio con l’amatissima Violante Guidotti Bentivoglio e gli altri tre figli, tutti battezzati, compreso Giulio, marxista-leninista, («un piccolo comunista che adoro...»). Diciamolo: la tentazione di classificarlo tra i Capalbio-boys è forte. L’humus è quello, le partenze intelligenti, le biciclettate Chiarone-Macchiatonda. Ma Calenda è un’altra cosa. Tiene insieme i tratti della gauche caviar con i toni da guascone, il polically incorrect con il generone romano. È il profilo della destra che piace alla sinistra. Tutt’altro che un moderato, però. Se avesse voluto emulare il suo avo celebratissimo avrebbe continuato la strada diplomatica. Invece, al contrario di Enrico Bottini, il bimbetto di «Cuore», Carlo è partito dagli Appennini senza mai arrivare alle Ande.

 

 

Il rapporto con Matteo Renzi è un capitolo a parte. Grandi amori. Litigi monumentali. L’anfitrione e il rivale si fondono. La nomina ad ambasciatore presso l’Unione europea a Bruxelles quando il toscano era premier fece infuriare tutti. Poi il lancio in politica. L’ex militante della Fgci, pizzaiolo alle feste dell’Unità, deluso senza partito e senza scranno che arriva da un binario morto (Italia Futura) in via Veneto: ministro allo Sviluppo economico. Carlo e Matteo, dicevamo. Prima amici, poi fratelli-coltelli. Costretti a convivere in una stessa bolla, due gocce di una stessa lacrima, aggrappati a quel che resta della scia di Mario Draghi pur pensandola all’opposto su tutto o quasi. Non è uomo da passioni fredde, Calenda. Vive di brevi ma intensi innamoramenti, sempre «en marche», come Macron, di cui è strenuo ammiratore. La tessera del Pd quando tutti la stracciano, le dimissioni quando gli altri la riprendono. E poiché solo chi ha avuto troppo si sente autorizzato a chiedere di più, eccolo tentare in solitario la scalata verso il Campidoglio. Sarebbe stato il suo trampolino per Palazzo Chigi. Risultato: Azione al primo turno è la lista più votata (19,3%), quasi ex aequo con la sindaca uscente Virginia Raggi. Tutt’e due fuori dal ballottaggio, però. Il resto è storia dei nostri giorni. Calenda europarlamentare che cannoneggia i grillini e i post grillini su Twitter, il bersaglio preferito. I selfie con la Bonino, incravattato, descamisados, strariparante contro tutti e contro nessuno. L’elogio del nucleare e dei termovalorizzatori, la rincorsa ai distinguo, i veti sul perimetro delle alleanze, la stretta di mano con Letta. Con il sospetto che in cuor suo anche lui abbia tramato «Enrico stai sereno».

 

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