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Trent'anni di attacchi e la destra è più forte. Inchieste e indagini puntuali alla vigilia delle elezioni

Carlantonio Solimene
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Lo scorso gennaio, quando Silvio Berlusconi palesò agli alleati il desiderio di correre per il Quirinale, l'Espresso gli dedicò una copertina dal titolo lapidario: «Lui no». Qualcuno, per l'occasione, si prese la briga di contare quante erano state, in poco più di trent' anni, le prime pagine «dedicate» dal settimanale al Cavaliere: la bellezza di 120. In pratica tre annate di edizioni. A queste, ovviamente, andavano aggiunti i chili di paginate vergate sull'ex premier da altri organi di stampa più o meno afferenti al mondo della sinistra. Con una partecipazione considerevole anche della stampa internazionale. Un esempio su tutti: il Silvio «unfit to lead Italy» vergato dall'Economist nel 2001. Nessuno, con ogni probabilità, avrebbe resistito a lungo a una simile costante demonizzazione. Eppure Berlusconi è ancora lì. Certo, non è più il leader indiscusso del centrodestra. Tuttavia, alla vigilia dell'ennesima campagna elettorale, recita ancora un ruolo da protagonista e può permettersi persino di snobbare i prestigiosi incarichi che gli vengono palesati: «Presidente del Senato? No, grazie. Sono più utile in Europa». Si può dire, anzi, che la pervicace campagna stampa condotta contro il Cavaliere rappresenti un esempio perfetto di «eterogenesi dei fini». Partita per indebolire Berlusconi, l'ha rafforzato. Dall'altra parte i segretari del Pd cambiavano a ogni elezione (a volte anche più spesso). Nel centrodestra no: nel 2022 si presentano ai nastri di partenza gli stessi leader del 2018. Lo schema, insomma, non funziona. Eppure è stato messo in moto tal quale nei confronti di chi ha preso il posto del leader di Forza Italia alla guida del centrodestra.

 

 

Alla vigilia delle Europee 2019 ancora l'Espresso dedicò un'inchiesta a presunti affari loschi di Matteo Salvini. Titolo: «Prima i soldi degli italiani», parafrasando lo slogan caro al segretario leghista. Alle elezioni che si sarebbero svolte qualche settimana dopo la Lega raggiunse il suo massimo storico, il 34,26%. Il «losco affarista», insomma, fu scelto da più di un elettore su tre. Erano gli anni in cui Giorgia Meloni era condiserata ancora una partner minore della coalizione. Certo, non mancavano ritratti al vetriolo sulla presidente di Fratelli d'Italia, prevalentemente sul suo linguaggio troppo romanesco e «borgataro» e sull'apologia del fascismo in cui cadeva una parte residuale della sua classe dirigente. Ma nessuno, ancora, aveva messo nel mirino presunti guai con la giustizia o giri di soldi poco chiari. Con un casellario giudiziario pulito, Meloni era semplicemente la «ducetta» e i suoi dei «fascisti da operetta». Il resto è storia recente. Fratelli d'Italia ha superato gli altri partiti della coalizione nei sondaggi e oggi la sua leader ha buone ragioni per immaginarsi, nel giro di qualche mese, a Palazzo Chigi. Così l'anno scorso è arrivata l'inchiesta sulla «lobby nera» di Fanpage e, oggi in edicola, la copertina de l'Espresso «Mazzetta nera», con Giorgia che confabula con il fedelissimo Ignazio La Russa. Intorno a lui, si legge, graviterebbe un «giro di affari» non si sa bene se legale o meno. In attesa di leggerne i contenuti, come si dice in questi casi: la giustizia farà il suo corso.

 

 

Se i precedenti contano qualcosa, però, inchieste e indagini fioriscono come in primavera alla vigilia delle elezioni, per poi appassire e scomparire dai radar dopo il voto. O magari andrà diversamente. Magari arriverà un'altra inchiesta con prove inoppugnabili che dimostreranno come Silvio Berlusconi sia in realtà un boss della mafia, Matteo Salvini un agente del Kgb sotto copertura e Giorgia Meloni la vera responsabile occulta della Strage di Bologna (d'altronde, all'epoca aveva ben 3 anni e qualche giorno fa al riguardo «La Stampa» la invitava a fare i conti con la storia). Magari i tre leader del centrodestra si presenteranno in lacrime davanti ai microfoni e ammetteranno tutto, supplicando gli elettori di non votarli. Il rischio, però, dopo trent' anni a gridare «al lupo al lupo», è che gli italiani non ci crederebbero più. E li voterebbero lo stesso.

 

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