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In Forza Italia vince sempre Berlusconi: chi volta le spalle a Silvio poi finisce nell'ombra
C'è quell'espressione lì, «comiche finali», entrata nell'immaginario collettivo in uno dei tanti, tormentatissimi, passaggi della vita del centrodestra. Eravamo nel 2007. A pronunciarla fu Gianfranco Fini, allora leader di An. Destinatario era Silvio Berlusconi. A quel tempo erano entrambi all'opposizione, e il Presidente di Forza Italia, dopo una riuscita campagna di gazebo in tutte le piazze del Paese lanciò l'idea di un partito unico che riunisse tutte le sigle dell'area. Fini rispose con quell'espressione sferzante, a sottolineare, e forse invocare, un epilogo un po' miserevole della parabola politica del suo alleato mai stato troppo amico. Si sa com' è andata a finire. Si sa quel che accadde dopo (un'altra, trionfante, cavalcata di Berlusconi verso Palazzo Chigi) e chi tra i due terminò la propria carriera politica. Perché vige una legge non scritta dal '94. Berlusconi essendo un'anomalia vivente, per la capacità di attrarre quote di consenso, di intercettare anche solo un angolo di aspettative scritte nell'anima profonda di questo Paese, è un fenomeno non interpretabile secondo i crismi della politica. E per questo ad essa sopravvive, spesso anche plasmandola alla bisogna. Dovrebbero saperlo bene gli ultimi fuoriusciti che hanno deciso di dire addio a Berlusconi.
L'ultima, ieri, è stata Mara Carfagna, perché «la mancata fiducia a Draghi indica la rinuncia a ogni autonomia della componente liberale dalla destra sovranista». Ha seguito l'esempio di altri due ministri, Mariastella Gelmini e Renato Brunetta, che hanno lasciato il partito per lo stesso motivo. Se si corre indietro di trent' anni, con le parole di quanti, lasciando Forza Italia, ne decretavano lo snaturamento e la fine prossima, si potrebbe comporre una ricca antologia. Eppure, quel calabrone con una struttura alare insufficiente per poter volare, volteggia ancora, influisce, condiziona, facendo pesare, oggi, quell'8% di consensi fino all'ultimo voto. E risuonano così nella storia le parole, per dire dell'allora deputato di Forza Italia Michele Caccavale, siamo nel marzo 1996, uno dei primi ad andarsene. «Povero Berlusconi -si rammaricava-costretto a predicare bene e a praticare male. Speriamo che gli italiani non ci caschino più». A guardarla ventisei anni dopo, tante e tante altre volte ancora ci sarebbero cascati. Al contrario, nel vuoto cadde la previsione di Vittorio Dotti, primissimo capogruppo degli azzurri alla Camera. Avvocato del gruppo Fininvest, signore autentico, faceva parte di quella squadra pionieristica che seguì Berlusconi nella discesa in campo. Poi il rapporto tra i due si ruppe pervia delle rivelazioni della di lui (Dotti) allora fidanzata, Stefania Ariosto, che inguaiarono sia Berlusconi che Previti. E non fu più ricandidato. Forza Italia, vaticinava Dotti, è destinata «a essere fagocitata da An». Non è accaduto. Balzo di qualche anno, siamo al 1998. Cominciano ad avere i mal di pancia interni tra i professori, quel gruppo di intellettuali di primissimo piano candidati da Forza Italia per conferire ad un partito neonato un inquadramento culturale. Uno di essi, Saverio Vertone, oggi non più tra noi, lamentava l'abbandono progressivo dello spirito liberale di Forza Italia, che, a suo dire, aveva abbracciato una politica "suicida", perché troppo conservatrice. Ventisei anni dopo, parliamo ancora di Forza Italia. Non si è suicidata né si è estinta. E andando su su negli anni troviamo ancora l'intervista di addio di Beppe Pisanu, dicembre 2012. Fu parlamentare, ministro dell'Interno, affiancò Berlusconi in tante e tante battaglie. «Berlusconi è in concorrenza diretta con Grillo», sosteneva. E ancora vedeva in Mario Monti «una specie di opportunità storica per i moderati». Tempo qualche mese e Scelta Civica ottenne un risultato assai parco alle elezioni.
E che dire quell'essere «diversamente berlusconiani» invocato da Angelino Alfano come anticamera del suo addio al Pdl? Anche lui criticava «posizioni estremistiche estranee alla nostra storia» che parevano avere la meglio nel partito. Alfano, che era stato indicato da Berlusconi, ma senza eccessiva enfasi, come suo delfino, si staccò da FI, sostenne i governi di centrosinistra della scorsa legislatura alla guida del Nuovo Centrodestra. E oggi è fuori dalla politica. Come dimenticare, poi, il fedelissimo Sandro Bondi che lasciò amaramente nel 2014, o l'addio di Gaetano Quagliariello, che seguì Alfano in Ncd, e Giovanni Toti che abbandonò il Cav per fondare Cambiamo. Ma in questa carrellata di dichiarazioni, che si riallaccia a quelle degli ultimi addii, c'è un comun denominatore: la denuncia di uno smarrimento dell'identità liberale e una mutazione della leadership di Berlusconi. Una Spoon River della malinconia, a fronte di uno solo che, in quel terreno impervio del post Seconda Repubblica, riesce ancora ad essere decisivo.