Ucraina, niente voto sulle armi, Draghi umilia Conte
Il governo continuerà a rifornire Kiev senza l'ok delle Camere
Sono le 16.20 quando, nel transatlantico del Senato, arriva la schiarita. «C'è l'accordo». Neanche il tempo di verificare i passaggi dell'intesa che, nel corridoio, compare il piddino Dario Stefàno. Ha in mano una pila di fogli. È la stesura finale della risoluzione sulla quale la maggioranza è riuscita faticosamente a ricomporsi. Quella su cui anche Palazzo Chigi ha dato il suo assenso. Stefàno mostra il passaggio della discordia.
Recita così: «Il governo deve continuare a garantire, secondo quanto precisato dal decreto-legge n.14 del 2022, il necessario e ampio coinvolgimento delle Camere con le modalità ivi previste, in occasione dei più rilevanti summit internazionali riguardanti la guerra in Ucraina e le misure di sostegno alle istituzioni ucraine, ivi comprese le cessioni di forniture militari». È tutto scritto a macchina tranne due parole aggiunte a mano: «e ampio», riferito al coinvolgimento delle Camere. È stato quello il punto su cui si è arenata la discussione al tavolo di maggioranza.
Alla fine Draghi ha dato l'ok all'aggettivo, ben sapendo che, formalmente, non significa nulla. L'aver agganciato la risoluzione al decreto Ucraina e l'aver ribadito che il governo dovrà limitarsi a seguire le modalità «ivi previste» segna di fatto una vittoria del premier su tutta la linea. L'esecutivo potrà continuare ad autorizzare nuovi invii di armi a Kiev senza passare da un voto del Parlamento e limitandosi a semplici decreti interministeriali. In quanto all'elenco degli armamenti, i ministri interessati potranno continuare a riferire soltanto al Copasir. Speculare al successo di Mario Draghi c'è la Caporetto di Giuseppe Conte. Il leader dei 5 stelle, dopo settimane a chiedere un nuovo voto del Parlamento sugli aiuti militari e dopo aver ridimensionato le sue pretese a una semplice «comunicazione preventiva alle Camere», resta con un pugno di mosche in mano. Di più, rinuncia anche ai propositi di un'uscita dall'esecutivo - magari per garantire un appoggio esterno - per non dare alibi a Luigi Di Maio. Per far passare il messaggio che «noi siamo atlantisti, lui se ne è andato per altri motivi, se ne è andato per il tetto dei due mandati». Parziale, parzialissima consolazione. Eppure ieri il governo alla crisi ci è andato vicino davvero. Lo si intuiva, prima che arrivasse la schiarita, dai capannelli che si formavano tra i senatori del Pd. «Se Conte esce se ne va anche la Lega» commentava un parlamentare. «No - replicava un'ex ministra - Salvini resta perché così può dimostrare che è più responsabile».
La situazione si era irrigidita intorno a mezzogiorno. Rispetto a lunedì - quando il tavolo si era sciolto in serata il M5s e LeU avevano già mandato giù che nella risoluzione fosse inserito il richiamo al decreto Ucraina. Di fatto, avevano già capitolato. Ma chiedevano che si facesse in qualche modo un riferimento alla necessità di un maggiore coinvolgimento parlamentare. Tutte le proposte trasmesse al sottosegretario Enzo Amendola e al ministro per i Rapporti col Parlamento Federico D'Incà erano, però, state rispedite al mittente da Palazzo Chigi. Così la riunione si era sciolta, Conte aveva riconvocato il Consiglio nazionale per decidere il da farsi e Draghi si era presentato in Senato senza avere in tasca nessun accordo. «Preoccupato?» gli avevano chiesto i cronisti. «Non lo so, vediamo» aveva risposto il premier, abituato in altre occasioni simili a fare sfoggio di ben altro ottimismo. «Aspettiamo quello che dice il capo del governo e poi decidiamo» aveva chiosato Federico Fornaro di LeU. Mentre il premier cominciava a pronunciare il suo discorso sulle agenzie comparivano i primi lanci sulla scissione di Di Maio. Non a caso, con Draghi che dedicava un passaggio al numero delle vittime tra i civili in Ucraina calcolate dall'Onu - «4.569 ma il numero reale potrebbe essere molto, molto più alto» - il ministro degli Esteri, seduto alla sua sinistra, volgeva spesso lo sguardo verso il basso. Forse compulsando il cellulare per restare aggiornato sulla raccolta firme organizzata tra i suoi fedelissimi. All'altro lato del premier, a destra, c'era invece la titolare dell'Interno Luciana Lamorgese. L'altra ministra ripetutamente sotto attacco, stavolta dalla Lega. Quasi un messaggio alla maggioranza: «Fate quello che volete, ma la composizione del governo non si tocca».
Draghi non ha nominato la parola armi nel suo discorso. Ma, per il resto, ha pronunciato parole chiarissime. «L'Italia continuerà a lavorare con l'Ue e il G7 per sostenere l'Ucraina, ricercare la pace, superare questa crisi». «Questo è il mandato ricevuto del Parlamento, da voi, e questa è la guida per la nostra azione» ha chiarito il premier, ricordando il decreto di inizio marzo. E poi ha specificato: «Solo una pace concordata e non subita può essere davvero duratura. «La sottomissione violenta e la repressione di un popolo per mano di un esercito non portano alla pace, ma al prolungamento del conflitto, forse con altre modalità, certo con altre distruzioni». Insomma: la pace deve andar bene a Kiev. E, fin quando questo non accadrà, l'Italia non si sfilerà dai doveri concordati con l'Europa e con la Nato. Per il M5s sono intervenuti Ferrara e Airola, due dei senatori più intransigenti, dando ulteriore fiato alle ipotesi di uno strappo. In realtà è stato il canto del cigno dei duri e puri. Di lì a qualche minuto Draghi darà il contentito dell'«e ampio» a Conte e tutto rientrerà.
Alla fine la risoluzione della maggioranza viene approvata con un margine ampio: 219 sì, 20 no e 22 astenuti. In ogni caso, rispetto ai numeri sui quali potrebbe teoricamente contare l'esecutivo, si registrano una quarantina di assenze. Segno che le fibrillazioni, al di là della guerra in Ucraina, sono destinate a trasferirsi presto su altri dossier. A partire dal termovalorizzatore di Roma, con l'emendamento dei 5 stelle per togliere i «super poteri» a Gualtieri che a giorni sarà votato in commissione. «Conte starebbe pensando di uscire dal governo» ha scritto ieri sera l'agenzia Bloomberg. Il punto non è tanto «se», ma «quando» dal pensiero si passerà all'azione.