gli effetti del voto
Il boom Meloni scuote il centrodestra. L'ultimatum della leader FdI al governo mette alle strette Salvini
A guardare le scosse telluriche che attraversano il centrodestra dopo il primo turno delle Amministrative c’è da chiedersi cosa potrà accadere il 27 giugno, all’indomani dei ballottaggi, quando anche il fair play legato all’esigenza di mostrarsi uniti verrà meno. Saranno state pure elezioni «minori», senza grandi città in palio, ma l’esito del voto, con la chiara affermazione di Fratelli d’Italia, capace persino di superare la Lega nel «suo» Nord, è destinato a cambiare profondamente la fisionomia della coalizione che tra un anno si candida a guidare il Paese. Non senza crisi di rigetto.
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La prima conseguenza è l’accantonamento - almeno per ora - del progetto di fusione Forza Italia-Lega. Una prospettiva che, allo stato attuale, sembrerebbe più un’intesa tra partiti in difficoltà che una seria alleanza programmatica. Col rischio di sommare le sigle ma non gli elettori. Lo ammettono chiaramente entrambi i partiti. «Non pensiamo a nessuna fusione, nessuna federazione, nessuna lista unica - chiosa Antonio Tajani, vicepresidente azzurro - non c’è nulla di tutto questo. Noi pensiamo a rafforzare il centro». Gli fa eco il vice di Salvini, Andrea Crippa: «Non mi pare all’ordine del giorno, non metterei in relazione poi la cosa con l’esito del voto, le federazioni si fanno sui programmi, non perché un partito diventa più forte di un altro», dice all’AdnKronos. Indirettamente, peraltro, è lo stesso Silvio Berlusconi a svelare il cambio del paradigma: «Rivolgo un pressante appello alle forze e soprattutto agli elettori di centro a venire con noi a rafforzare la componente centrista del centro-destra». Insomma, nessun apparentamento col sovranista Salvini. Anche perché un’ala del partito era scettica già quando Matteo era al massimo dei consensi. Figurarsi ora.
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Il secondo punto sta in quella vecchia regola non scritta in vigore nel centrodestra: chi arriva primo propone il nome del premier. Concetto sul quale, però, ancora Tajani adesso si mostra molto più prudente: «Nessun pregiudizio su nessuno - dice al Corriere della sera riferendosi alla Meloni - ma non è un problema di oggi. Peraltro è il presidente della Repubblica che dà l’incarico. Non lo decidiamo mica noi».
L’impressione è che la coalizione, alle prese con il secondo «terremoto» in pochi anni - il primo fu, nel 2018, il sorpasso della Lega su Forza Italia - fatichi a digerire il nuovo status quo. E non potrebbe essere altrimenti, vista l’attuale distanza tra le due «ali» del centrodestra, con due partiti al governo e uno all’opposizione. Ed è proprio l’invito di Meloni agli alleati a mollare la maggioranza ad aver lasciato il segno. Salvini, che inizialmente aveva rispedito l’invito al mittente, ieri ha ammesso tutte le difficoltà della situazione: «Essere al governo è una responsabilità, ma starci col Pd è impegnativo». Il punto è che lasciare la maggioranza adesso, oltre a irritare la componente più «governista» del Carroccio, significherebbe soprattutto «dare ragione» all’alleata che fin dall’inizio è rimasta fuori dall’esecutivo di unità nazionale. Col rischio di cederle ancora più consensi.
Un circolo vizioso che non rende facilissima la ricomposizione del centrodestra in vista delle prossime politiche, ancora di più delle questioni della leadership, della stesura delle liste elettorali e delle frizioni personali. Che, al di là delle photo opportunity da palco elettorale, restano sottotraccia. Ne è dimostrazione il fatto che nessuno, in Forza Italia e Lega, abbia detto ieri una parola di solidarietà alla leader di FdI dopo lo sguaiato attacco del Partito democratico. Considerate tutte le volte in cui Berlusconi si è speso personalmente per fare scudo a Salvini e viceversa, la cosa non è insignificante.