Mario Draghi premier anche dopo il 2023. La finanza mondiale ha già deciso
Draghi dopo Draghi. Da ieri l’ipotesi che l’attuale premier possa succedere a se stesso anche dopo le elezioni - e senza neanche lo sforzo di candidarsi - ha un «tifoso» in più. E cioè la grande finanza internazionale, preoccupata da quello che potrebbe succedere ai conti pubblici italiani quando i partiti riprenderanno la plancia di comando. Specie se a vincere dovesse essere la destra «euroscettica», con effetti nefasti su debito pubblico, Spread e via discorrendo.
Lo ha messo nero su bianco Goldman Sachs nella sua ultima analisi economica, focalizzata sulla sostenibilità dei deficit dei Paesi dell’Europa meridionale. Segnatamente: Portogallo, Spagna, Grecia e, appunto, Italia. «L’avvicinarsi delle prossime elezioni - è scritto nel report dell’influente banca d’affari per la quale lo stesso Draghi lavorò tra il 2002 e il 2005 - potrebbe rivelarsi il catalizzatore atteso da alcuni operatori di mercato per verificare quanto sia sostenibile il debito italiano». «Un cambiamento dell’attuale coalizione di governo - argomentano da Manhattan - finirà per aumentare l’incertezza sulla realizzazione del Recovery Fund, il suo impatto sulla crescita e, di conseguenza, il suo sostegno alla sostenibilità del debito».
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La base del ragionamento sta nel fatto che, se attualmente il debito italiano resta lontano dai livelli di emergenza, è soprattutto grazie al Pnrr, finanziato da aiuti a fondo perduto e prestiti. Erogazioni, però, che sono legate all’attuazione di una serie di riforme. Che, per adesso, sono andate avanti grazie alla fermezza del premier, capace di tenere insieme una maggioranza altrimenti inconciliabile, a costo di minacciare la dimissioni a ogni intoppo. Le prossime elezioni, però, «vedranno l’attuale coalizione spezzarsi in due blocchi». Con un’incognita sulla reale capacità di portare a termine gli impegni previsti nel Piano.
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Lo scenario tracciato è di fatto quello di un’ulteriore tempesta dello Spread qualora i patti con l’Europa saltassero. Situazione che mette l’Italia in una posizione più difficile rispetto agli altri Paesi analizzati, perché in Grecia o Portogallo il voto dovrebbe confermare gli attuali assetti e perché il debito pubblico di Atene ha una scadenza media (21 anni) molto più lontana di quella di Roma (7), il ché lo rende più sostenibile. In quanto alla Spagna, le due coalizioni in lotta sono considerate ugualmente «europeiste». Mentre in Italia, per Goldman Sachs, sono in vantaggio nei sondaggi le formazioni «euroscettiche».
Il giudizio della banca d’affari arriva al culmine di alcune settimane in cui in effetti tanto la Lega di governo che l’opposizione di Fratelli d’Italia hanno tuonato contro Bruxelles. Sia per le raccomandazioni della Commissione europea, che rilanciavano la riforma del catasto, sia per la stretta in Parlamento sul ddl Concorrenza, con all’interno la spinosa questione delle concessioni balneari. L’ipotesi che un centrodestra vincente alle elezioni possa rimettere in discussione queste scelte - ieri il forzista Mallegni lo ha di fatto promesso sui balneari - è considerata realistica. Il ché, abbinato al rialzo dei tassi di interesse avviato dalla Bce, scatenerebbe una nuova crisi del debito sovrano, come e peggio del 2011.
Inevitabile le reazioni stizzite di chi, come Fratelli d’Italia, nell’analisi recita il ruolo del «cattivo»: «La banca d’affari americana - tuona Giorgia Meloni - non vede di buon occhio un governo con pieno mandato popolare degli italiani per fare i loro interessi». Sulla stessa falsariga Matteo Salvini: «Lasciamo che a scegliere siano milioni di cittadini, non quattro banchieri. Viva la Democrazia e la Libertà» scrive sui social il leader della Lega.
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L’intemerata di Goldman Sachs farà invece piacere a chi, non più nell’ombra, lavora affinché la reggenza Draghi non sia un unicum della storia italiana. Dichiarazioni in tal senso sono state già fatte da Carlo Calenda di Azione! e da Giovanni Toti di Cambiamo. Un arco parlamentare assai minuto, ma che sarebbe destinato ad allargarsi qualora il progetto di Pd e M5s di tornare alla legge elettorale proporzionale si concretizzasse. Il centrodestra, su questo fronte, ha fatto muro, ma va verificata la reale compattezza dei partiti. Tanto in Forza Italia che nella Lega, infatti, alcune pulsioni «draghiane» sono ben radicate. Ne sono esempio i mal di pancia dei ministri azzurri e i distinguo dei governatori del Carroccio.
C’è poi un altro discrimine, oltre a quello economico, che rischia di condizionare la formazione del prossimo governo, qualsiasi sia l’esito elettorale: si tratta del «fattore Z», citato da una vecchia volpe del Parlamento come Pier Ferdinando Casini. In pratica, argomenta l’ex presidente della Camera, con il presumibile trascinarsi del conflitto russo-ucraino, al prossimo esecutivo sarà chiesto di schierarsi esplicitamente per il fronte atlantista. Una sorta di avviso a Salvini e Conte affinché non strizzino troppo l’occhio a Putin, pena l’autoesclusione dai giochi.
Nelle Cancellerie e nei consessi economici internazionali, insomma, l’auspicio è che l’Italia resti a lungo ancorata ai valori europeisti e atlantisti. Che poi furono le stesse due parole usate da Mario Draghi nel discorso con cui si presentò alle Camere. Alla fine, tutto torna.