tormenti democratici
Referendum, Letta resta solo sulla giustizia. Nel Pd scatta la corsa a smarcarsi dal no
Il trucco più vecchio del mondo. Quando una questione è divisiva in un partito, pur di non andare alla conta interna si ricorre alla sempreverde «libertà di coscienza». Che può aver senso quando si parla di temi etici. Assai meno se il pomo della discordia è uno degli argomenti più politici che ci sia, la riforma della giustizia.
Eppure Enrico Letta proprio alla libertà di coscienza ha fatto ricorso pur di non spaccare il suo Pd sui referendum del prossimo 12 giugno. Certo, una linea il segretario l’ha data, e anche ben chiara: «Una vittoria dei sì aprirebbe più problemi di quanti ne risolverebbe». Ma, al tempo stesso, ha deciso di evitare di imporre la disciplina di partito: «Il Pd non è una caserma e men che meno su questi temi: c’è la libertà dei singoli».
Altri tempi quando gli ex Ds e l’Associazione nazionale magistrati erano un tutt’uno. C’era Berlusconi al governo e le questioni era sostanzialmente le stesse di adesso, in primis la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. «Resistere, resistere, resistere» tuonava Francesco Saverio Borrelli. E da sinistra partivano scrosci di applausi.
Ora le cose sono un «poco» cambiate. Nella percezione dell’opinione pubblica, soprattutto. E anche nel Partito democratico. Tant’è vero che la «libertà» concessa dal segretario è suonata come il campanello della ricreazione. Tutti, finalmente, autorizzati a dire quello che pensavano su questioni spinose come Csm, custodia cautelare, legge Severino. E così anche chi finora non si era espresso, è venuto allo scoperto: «Sugli altri quesiti seguirò la linea del partito e voterò no - argomenta Stefano Lo Russo con Il Foglio - ma sulla Severino proprio non me la sento. È una legge che colpisce ingiustamente tanti amministratori locali». Quindi il sindaco di Torino si è aggiunto a tanti altri primi cittadini Dem che nelle ultime settimane hanno manifestato la volontà di votare sì il 12 giugno. Se non a tutti i quesiti, per lo meno ad alcuni.
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Ad aprire una riflessione sulla legge Severino era stato il sindaco di Pesaro Matteo Ricci, perplesso di fronte alla sospensione di 18 mesi comminata agli amministratori locali anche in assenza di una condanna definitiva. E oltre si era spinto il primo cittadino di Bergamo Giorgio Gori, che aveva annunciato il sì a ben tre quesiti e in particolare a quello sulle limitazioni alla custodia cautelare.
Reduci della stagione renziana, si potrebbe pensare. E invece lo «smottamento» garantista è molto più diffuso di quanto si creda. Perché il primo a smarcarsi sui referendum - si era ancora ai tempi della raccolta firme - fu Goffredo Bettini, il «suggeritore» di Nicola Zingaretti, che di tutto può essere tacciato tranne che di vicinanza al leader di Italia viva. Ebbene Bettini si è schierato a favore dei quesiti su custodia cautelare, Severino e separazione delle carriere.
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Poi, certo, gli ex renziani ci sono e sono numerosi. Il costituzionalista Stefano Ceccanti ha firmato l’«appello liberal» per il sì della rivista Linkiesta, sottoscritto anche dall’ex viceministro Enrico Morando. Per l’ex capogruppo al Senato Andrea Marcucci «i referendum sono uno stimolo, perché quando vedo che nelle nostre carceri fino al 40% dei detenuti sono in attesa di giudizio, mi vengono i brividi». Il senatore Salvatore Margiotta a febbraio si disse «pentito di non aver firmato i referendum» e garantì che, se la Consulta li avesse ammessi, «farò la mia parte nella campagna». E così tanti altri.
Al punto che in Puglia il consigliere regionale Fabiano Amati ha lanciato il comitato «Democratici per il sì». Da parte sua, Amati potrebbe scontare anche il dente avvelenato verso un magistrato (o ex) in particolare. Quel Michele Emiliano che guida la Regione e con il quale non si è mai preso. Le vie del garantismo sono davvero infinite