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Mario Draghi evita la trappola grillina: nodo armi solo sfiorato, continua il sostegno all'Ucraina

Carlo Solimene
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L’esito è stato inversamente proporzionale all’attesa. L’informativa di Mario Draghi in Parlamento sullo stato del conflitto in Ucraina, richiesta a gran voce dai 5 stelle, alla fine non ha prodotto quegli scossoni che qualcuno si sarebbe aspettato. Probabilmente perché a volere così è stato lo stesso premier, che - per evitare fibrillazioni in una maggioranza già sull’orlo della crisi - ha preparato un resoconto scarno, letto in meno di trenta minuti, con pochissime pause «chiama applauso» e nessuna concessione alla retorica. Di fronte, una platea poco partecipe e per nulla numerosa: sia a Palazzo Madama che a Montecitorio mancavano circa un terzo dei parlamentari. E tra i senatori a marcare visita c’erano tre nomi «eccellenti»: Vito Petrocelli, Gianluca Ferrara ed Ettore Licheri. Ovvero i tre protagonisti grillini del pasticcio sulla commissione Esteri. Il discorso di Draghi, quindi. Con l’accento iniziale sulla necessità di arrivare alla pace. Che va cercata, sì, ma dev’essere quella che vuole l’Ucraina, altrimenti non starebbe in piedi. E poi il tema dell’invio delle armi a Kiev. Che era alla vigilia il principale oggetto del contendere ma, poi, nel discorso, viene appena sfiorato.

 

 

La stessa parola «armi» non è mai stata pronunciata. Certo, il premier ha sottolineato che «se oggi possiamo parlare di tentativo di dialogo è perché l’Ucraina è riuscita a difendersi in questi mesi di guerra». Rivendicando, tra le righe, che senza il sostegno anche militare dell’Occidente, probabilmente l’Ucraina avrebbe già alzato bandiera bianca da tempo. E ribadendo che sul punto non si cambierà linea: «L’Italia continuerà a sostenere il governo ucraino negli sforzi per respingere l’invasione russa, in stretto coordinamento con i partner europei. Ne va della solidità del legame transatlantico, ma anche della lealtà all’Ue». Sottolineando, infine, che l’Italia si è mossa nel solco della risoluzione adottata in Parlamento a inizio marzo «e così farà anche in futuro». Tutto recitato in maniera abbastanza asettica, senza quel minimo di pathos che il divampare di una guerra ai confini dell’Europa aveva portato in Parlamento nelle prime settimane del conflitto. Lo stesso premier sembra calcare più la voce quando parla della necessità, per affrancarsi del gas russo («dovremmo farcela nella seconda metà del 2024»), di affidarsi a fonti rinnovabili e di sbloccare gli iter burocratici che impediscono di farlo, quasi a voler offrire un ramoscello di pace ai grillini. Che, infatti, applaudono. Svogliati, però, come le altre forze di maggioranza, mai all’unisono, ognuna a scegliersi i passaggi più convenienti per il proprio orticello.

 

 

Uno scenario, insomma, che tradisce come le perplessità dell’opinione pubblica sul tema guerra si siano ormai fatte strade anche in Parlamento. Dove i destini di Kharhiv, Kherson o Mariupol cominciano a diventare un’eco lontana rispetto alle problematiche più tangibili in Italia, il caro prezzi dell’energia o il rischio di una nuova ondata migratoria a causa dell’interruzione delle esportazioni verso l’Africa del grano dall’Europa dell’Est. Lo si capisce bene dall’intervento in replica di Matteo Salvini, che innanzitutto dice no ad altri invii di armi («io non ci sto») e poi aggiunge che «chi continua a parlare solo di invio di materiale bellico non fa il bene dell’Italia perché noi qua siamo stipendiati dagli italiani ed è giusto salvare vite nei paesi vicino a noi ma abbiamo il dovere anche di fare gli interessi nazionali e far cessare la guerra il prima possibile significa salvare posti di lavorio in Italia. Pace significa lavoro». Anche l’altro osservato speciale della giornata, Giuseppe Conte, non si muove dalle sue posizioni: «L’informativa era doverosa, a 3 mesi dallo scoppio della guerra» dice a margine di un convegno, «ma la risoluzione richiamata da Draghi è stata votata dal Parlamento a inizio guerra ed è giusto vada aggiornata, è giusto che il Parlamento si possa anche misurare su una nuova convergenza che rafforzi anche il governo». Insomma, i nodi restano tutti sul tappeto e, in attesa che si arrivi al momento in cui andrà licenziato il quarto decreto sulle armi, i protagonisti continuano a recitare la propria parte in commedia. Scegliendo, per un giorno, di non alzare eccessivamente i toni.

 

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