Mario Draghi scappa dal Parlamento sull'invio di armi all'Ucraina: partiti snobbati
Ieri mattina i ministri degli Esteri di Italia e Ucraina hanno avuto una conversazione telefonica. Al termine del colloquio, Dmytro Kuleba ha ringraziato pubblicamente Luigi Di Maio «per le forniture di armi ricevute». Forniture di cui deve restare all'oscuro l'opinione pubblica. Nonostante la maggioranza del Parlamento chieda al premier Draghi di riferire in Aula. Sono tre i partiti che ritengono non più rinviabile un passaggio parlamentare. Due sostengono il governo: Lega e M5s. L'altro sta all'opposizione: Fratelli d'Italia. Da soli contano 325 deputati e 157 senatori. Senza considerare i contrari a sinistra. Nel Pd, infatti, continuano a crescere i "malpancisti" che non condividono la linea iper-atlantista di Enrico Letta. Ma il presidente del Consiglio non intende cedere, continuando a trincerarsi dietro il massimo riserbo. Va detto che non c'è alcun obbligo formale di presentarsi di fronte alle Camere. I richiedenti, però, ritengono che l'obbligo sia politico oltre che morale. Il primo decreto Ucraina varato a fine febbraio e convertito in legge a inizio aprile autorizza l'esecutivo a inviare armi a Kiev fino al 31 dicembre di quest'anno. Solo Sinistra Italiana e Alternativa hanno espresso voto contrario. Da allora non sono più necessari passaggi parlamentari, perché il governo può continuare ad inviare armi con semplici decreti interministeriali. Già due volte è successo, a fine marzo e a metà aprile. E accadrà di nuovo. Il prossimo decreto interministeriale è già pronto. Lo ha detto lo stesso Draghi tre giorni fa incalzato dai giornalisti in conferenza stampa. «Prevede l'invio di nuove armi», ha ammesso, ma «non so dire di che tipo in questo momento».
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Questi decreti, con la lista degli armamenti allegata, sono stati inviati al Copasir (il comitato parlamentare per il controllo dei servizi segreti). Poi è stato apposto il segreto per motivi di sicurezza. In realtà nessuno chiede di conoscere il numero esatto di ogni fornitura: quanti missili Stinger, quante munizioni, quante bombe e quante mitragliatrici. Giuseppe Conte lo ha ribadito ieri: «Non stiamo chiedendo» al premier Draghi «di portarci la lista della armi e approvarla una per una. Come forza di maggioranza relativa vogliamo dare un contributo per arrivare all'unico obiettivo politico accettabile: condanniamo la Russia, sosteniamo convintamente l'Ucraina, ma l'Italia deve continuare a lavorare per una soluzione politica». Quella del leader pentastellato sta assumendo sempre più l'aspetto di una battaglia senza esclusione di colpi. È arrivato addirittura ad adombrare una resa dei conti personale. «Sarebbe gravissimo», ha detto Conte, se le parole di Draghi sul superbonus e lo strappo in Consiglio dei ministri sul termovalorizzatore di Roma, fossero «una rappresaglia di fronte a una richiesta legittima: quella per cui un primo ministro vada in Parlamento a riferire e spiegare ai cittadini quale posizione ha l'Italia ai tavoli internazionali». Le questioni, in realtà, non sono legate. Ma il fatto che l'ex premier le tiri in ballo, collegandole all'invio di armi a Kiev, è il sintomo del livello di guardia ormai superato. Anche Matteo Salvini pretende un cambio di rotta. È tornato a farlo ieri citando il segretario di Stato vaticano: «L'Italia lanci una grande iniziativa europea per la pace, continuare a mandare armi è una "risposta debole", come affermato dal cardinale Parolin». Poi ha aggiunto: «Dopo due mesi e mezzo e migliaia di morti io do voce alla maggioranza degli italiani seguendo anche quello che dice il Papa». La Sante Sede non nasconde la preoccupazione per l'escalation del conflitto. «Vedo che in molti stanno inviando armi e questa è una cosa terribile da pensare» anche se «resta il principio della legittima difesa», ha detto Parolin la settimana scorsa.
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Il maggior alleato di Draghi sulla linea della riservatezza resta Enrico Letta. Nonostante i crescenti malumori nel suo partito, il segretario del Pd non cambia posizione e attacca frontalmente sia Conte che Salvini: «Invito tutti a cercare di più le ragioni ci uniscono, supportare il governo e cercare la pace insieme. Andare a dividere, andare a distinguersi in ogni momento rende il governo più debole in Europa. C'è bisogno di unità e coesione, io lavoro in questa direzione». Per ritrovare la coesione basterebbe almeno iniziare a comunicare le cifre. Il Kiel Institute - uno dei think tank economici più autorevoli d'Europa - ha stimato che nel primo mese di guerra l'Italia ha inviato all'Ucraina armamenti dal valore complessivo di 150 milioni di euro. Un dato che ci collocava al quarto posto nel mondo. Il calcolo è stato possibile intrecciando indiscrezioni giornalistiche e liste di armi fatte trapelare dai governi. L'istituto tedesco ha appena aggiornato il suo dossier. Ma purtroppo non è stato in grado di ricostruire il valore delle forniture militari inviate da aprile in poi. Segno di quanto sia fitta la cortina di nebbia gettata dal governo sul tema.
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