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Armi all'Ucraina, Enrico Letta sempre più solo

Carlantonio Solimene
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I malumori nel partito, per adesso ancora limitati o confinati nei retroscena. Le perplessità dei cosiddetti «opinion leader», che - seppur con cautela - sempre più spesso vengono esternati. Infine, lo smarrimento della base, esploso in tutta evidenza nella contestazione subìta in occasione del 25 aprile.

Comincia a farsi complicata la posizione del segretario del Pd Enrico Letta sulla crisi ucraina. Perché, una volta affievolitasi la forte solidarietà dell’opinione pubblica nei confronti di Kiev nel corso delle prime settimane dell’invasione russa, la scelta di dire sì senza se e senza ma all’invio di armi a Zelensky non gode più di un consenso trasversale e plebiscitario. E il dibattito che si sta sviluppando nell’universo di sinistra mal si concilia con la posizione ferrea del leader Dem. Il più «atlantista», in questo momento, tra i politici italiani. Secondo solo al «non politico» Draghi.

Le contestazioni del 25 aprile, i fischi del corteo di Milano, il coro «Letta servo della Nato», hanno rappresentato il primo serissimo campanello d’allarme. E, insieme, hanno costituito una sorta di via libera per chi, a sinistra, non aveva ancora osato criticare il segretario. Il 1° maggio, altra data simbolica, sono state pubblicate due interviste diversissime per genere, argomento e protagonisti. Eppure simili e significative su un punto: l’invio delle armi all’Ucraina. La prima, quella più politica, l’ha concessa Graziano Delrio al <CF202>Fatto quotidiano</CF>. «Il vero salto di qualità che ci è richiesto - ha detto l’ex ministro delle Infrastrutture - è non far proseguire la guerra per mesi o per anni, non lavorare per logorare il governo russo». E ancora: «Il problema è se da una guerra di legittima resistenza si passa a un indirizzo diverso per umiliare il governo russo». Delrio è l’unico ad averlo detto chiaro e tondo. Ma le perplessità verso le ultime sterzate statunitensi - accolte senza alcun distinguo dal governo italiano - sarebbero condivise da diversi esponenti Dem. Dall’area cattolica, ben rappresentata dallo stesso Delrio. E anche da quella che pende più a sinistra. In questo senso assume un significato particolare anche quanto accaduto al congresso di LeU di qualche giorno fa. Dove un Giuseppe Conte trasformatosi in oltranzista del pacifismo è stato accolto con un’ovazione dai militanti. In un contesto nel quale Letta teoricamente avrebbe dovuto «giocare in casa».

Poi c’è la seconda intervista. Concessa al Corriere della sera, sempre il 1° maggio, da Luciano Liguabue. Che, di fronte a una domanda «politica», non si tira indietro. «Oggi voto Pd - dice - ma a fatica. Fatico a seguire Letta in questa convinzione che per fermare la guerra in Ucraina si debbano mandare altre armi». Ora, Ligabue è «solo» un cantante, vero. Ma riveste perfettamente i panni dell’intellettuale «d’area». Emiliano, nonno partigiano, nessuno più del cantautore di Corregio dovrebbe condividere la «resistenza» ucraina. Eppure...

Eppure l’impressione che Letta abbia collocato la «Ditta» in una posizione eccessivamente filoamericana fa sempre più proseliti. E, al Nazareno, si chiedono se questo possa avere un costo dal punto di vista elettorale. Finora, nei sondaggi, il Pd tiene: ancorato a quella quota 20% che sembra essere inscalfibile qualsiasi siano le mosse della dirigenza. Ma di certo non passa inosservato quel 27% di elettori Dem che, secondo l’ultima rilevazione di Euromedia Research, si dice contrario all’invio di armi in Ucraina. E che si sente sempre più a disagio nella deriva interventista.

Il rischio è «l’effetto Fini». Cioè che la posizione del leader, tanto apprezzata da opinionisti e commentatori del «mainstream», finisca con l’alienare lo storico elettorato del Pd. Letta, che di certo non è un novizio della politica, lo ha capito e negli ultimi giorni sta provando a ricalibrare il suo messaggio. «Le armi che inviamo servono per la difesa di un paese aggredito, non certo per attaccare il territorio russo» ha detto in un’intervista concessa, non a caso, al Manifesto. Nella quale ha anche aperto a un nuovo dibattito parlamentare sulle scelte dell’Italia sulla crisi ucraina.

L’obiettivo è smarcarsi dall’identikit guerrafondaio che gli è rimasto appiccicato nei primi due mesi di conflitto. E che ha anche inspirato alcuni manifesti «fake» che hanno preso di mira le sue scelta. Il rischio, però, è che la correzione di rotta sia arrivata troppo tardi. E che, più che sincera, sembri una corsa ai ripari opportunistica.
 

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