rebus giustizia
Riforma del Csm, il centrodestra ha avuto il merito di non arretrare sui punti decisivi
Due pesi e due misure, il bastone e la carota: sembra essere questa la postura di Draghi nei confronti delle istanze (e dei legittimi interessi) che centrodestra e sinistra di governo gli sottopongono nell’estenuante braccio di ferro connaturato a una maggioranza così politicamente eterogenea. È un retrogusto amaro per Forza Italia e Lega, che hanno responsabilmente risposto alla chiamata dell’unità nazionale ma che in nome delle emergenze esterne non possono accantonare questioni di principio e battaglie storiche iscritte nel loro dna. I compromessi sono ovviamente necessari in un contesto così eccezionale, ma se vengono indirizzati al ribasso verso una parte sola, diventano inaccettabili. Si dice: ma senza riforme adeguate, si rischia di perdere le risorse del Pnrr, e Draghi ha il dovere di tenere la barra dritta di fronte a una coalizione sempre più incline alla rissa quotidiana e che in vista degli appuntamenti elettorali ha perso di vista l’interesse nazionale. Ieri è stata raggiunta un’intesa sulla riforma della giustizia, ed è una buona notizia, perché è uno dei dossier cruciali su cui l’Europa ci attende al varco. Ma è rimasta impantanata per ben nove mesi a causa delle resistenze della sinistra giacobina.
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Il centrodestra ha avuto il merito di non arretrare su alcuni punti fondamentali come una vera separazione delle funzioni tra pm e giudici, lo stop alle porte girevoli per i magistrati che entrano in politica e un metodo di elezione del Csm che ponga davvero fine alla degenerazione correntizia, ed è stato per questo tacciato di irresponsabilità. Come se l’interventismo della magistratura fosse un espediente propagandistico e non una deriva che ha fatto fibrillare le istituzioni e deragliare la giustizia dai binari della Costituzione. La coerenza alla fine ha pagato, ed è un precedente che deve valere anche per l’altra grande questione sul tavolo della maggioranza, ossia la delega fiscale, sulla quale Draghi ha finora eretto un muro invalicabile, mostrando un’insofferenza ai limiti della rottura per le richieste di modifica della riforma del catasto. Eppure a giugno, quando il Parlamento approvò il documento di indirizzo politico da presentare al governo, la maggioranza convenne di non indicare il catasto fra i temi da includere nella riforma del fisco, che peraltro non rientra tra quelle necessarie per ricevere i fondi europei, ma è solo un atto di accompagnamento al Pnrr.
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Il centrodestra ha proposto una mediazione ragionevole: la nuova mappatura degli immobili non dovrà essere utilizzata per incrementare il gettito fiscale, fatta salva l’emersione degli immobili fantasma. Il premier assicura che non vuole aumentare le tasse, ma allora deve essere conseguente e togliere dalla delega l’articolo 6, che prefigura una futura patrimoniale. E invece, spalleggiato dalla sinistra, ne sta facendo un potenziale fattore di crisi, perché è chiaro che se il braccio di ferro inducesse alla fine il governo a porre la fiducia, le conseguenze politiche sarebbero inevitabili, ma in questo caso la palma dell’irresponsabile non andrebbe al centrodestra, ma a chi ritiene una riforma del catasto più importante della stabilità in mezzo a una guerra.
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Nessuno può augurarsi che si arrivi a tanto, ma intanto è indubitabile lo sbilanciamento del governo a sinistra, basti pensare all’aumento delle spese militari, su cui il rallentamento preteso da Conte alla fine c’è stato, o allo sviluppo del nucleare pulito, scomparso dai radar dopo le aperture del ministro Cingolani per non turbare i pasdaran dell’ambientalismo grillino, avanguardia luddista della lotta sconsiderata all’estrazione del nostro gas, che sta trovando una sponda nella decisione del governo di respingere 37 richieste per esplorare nuovi giacimenti di gas e di petrolio. Una scelta sinistra, ai limiti dell’incredibile.