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Incolpare le lobby non è la soluzione. Luigi Bisignani se la prende per la legge (sbagliata) sui gruppi d'influenza

Luigi Bisignani
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Caro direttore, la legge non è uguale per tutte le lobby. Chissà se la spudorata lobby pigliatutto Giavazzi/Draghi imperante negli incarichi pubblici, oppure quella più insidiosa di Travaglio-Cairo-La7 pro «Giuseppi», o ancora quella più fluida LGBTQ+, che impazza soprattutto in Rai, verranno bloccate dalla pomposa legge di «Disciplina per l'attività di relazioni istituzionali perla rappresentanza di interessi» che il Parlamento sta per varare? La risposta è certamente no. Il Senato, su impulso dei grillini, è impegnato ad approvarne una che li autorizzi a dire che, dopo la povertà, sono state abolite anche le lobby. Regolamentare questo settore sarebbe utile e auspicabile, ma ridurre il problema, come in questo caso, al «controllo dei regolati» anziché puntare sul principio della competenza, come nella maggior parte delle normative in materia dei Paesi occidentali, non rappresenta affatto la soluzione, anzi. Sosteneva John Kennedy: «I lobbisti mi aiutano a capire una questione in tre minuti, i miei collaboratori in tre giorni». Addirittura un Santo come Wojtyla arrivò a benedire il ruolo dei lobbisti americani alla Frank Fahrenkopf. La definizione data al lobbying dalla Commissione Europea recita: «Attività svolta al fine di influenzare l'elaborazione delle politiche ed il processo decisionale delle istituzioni», che è «parte essenziale del procedimento parlamentare».

 

 

Oggi, a Bruxelles, sia il Parlamento che la Commissione Ue hanno un registro congiunto chiamato «Registro per la trasparenza». Ma cosa non va nella legge in gestazione? Innanzitutto lo spirito punitivo che caratterizza l'impianto complessivo che prevede di indicare a cadenza settimanale chi incontra, di cosa discute, gli appuntamenti, le persone presenti. Il presupposto da cui si dovrebbe invece partire nella regolamentazione del lobbying è quello di riconoscerlo ufficialmente come una professione, analogamente a quanto prevede il nostro ordinamento per avvocati e notai. Mentre il risultato dell'impostazione «manettara» pentastellata sarà che, nonostante i controlli previsti, le lobby più potenti continueranno comunque a sguazzare indisturbate in Italia. Ne è un esempio tutto ciò che oggi gira intorno alle risorse europee del Pnrr all'interno dei ministeri, nessuno escluso, e il senso unico con cui vengono indirizzate oramai tutte le nomine pubbliche. In un momento così tragico di guerra, solo questo «Governo dei migliori» poteva avere la sfrontatezza di rimuovere, inaudita altera parte, da colossi pubblici come Fincantieri e Snam due uomini di esperienza, competenza e capacità come Giampiero Massolo e Marco Alverà, quest'ultimo sostituito addirittura da un «giavazzino» autoreferenziale, tal Stefano Venier. Un testo normativo spinto incredibilmente anche dalla piddina Marianna Madia che, avendo attraversato come una Madonna in processione tutte le correnti del suo partito, ha beneficiato dell'importanza dei suoi stessi legittimi rapporti nel mondo dell'intellighenzia di sinistra e cosa significano certe appartenenze familiari.

 

 

Il principio della legge in questione è solo ed esclusivamente quello di voler controllare in modo asfissiante chi fa lobbying (e indirettamente la politica), partendo da una presunzione di colpevolezza di chiunque se ne occupi. Tra l'altro, se si arriverà davvero, come pare, a imporre la pubblicazione di qualsiasi materiale «attenzionato», da quello relativo a segreti industriali fino ai piani di sviluppo, il rischio delle «soffiate» alla concorrenza è sicuro, così come per i temi «price sensitive» di società quotate o quelli riguardanti la sicurezza nazionale. Normare il lobbying non è certo facile, tutt'altro: se i partiti politici oppure i sindacati esercitano pressioni o tentano di influenzare un iter legislativo o un provvedimento, dobbiamo dedurre che agiscono come lobbisti? E un commercialista che propone delle bozze di modifica a un provvedimento, lo fa con il cappello di esperto fiscale o con quello di lobbista? Ovviamente sono già all'opera coloro che cercano di svicolare dalla futura legge. Per questo motivo, negli ultimi giorni è partita la corsa agli emendamenti in Senato. Per fare qualche nome, sono al lavoro professionisti del calibro di Alessandro Picardi, in uscita, sembra, da Tim, marito di Beatrice Lorenzin, anche lei «piè veloce» fra tanti partiti, e il lobbista di lungo corso della Coca Cola Fabio Bistoncini. Con il rischio però di finire nelle maglie di un'altra legge discutibile, quella sul «Traffico di influenze illecite», che ha portato in 3 anni (2013-2016, unici dati disponibili online) a un solo condannato nonostante il numero esorbitante di scoppiettanti indagini.

Questo atteggiamento orwelliano non fa altro che ingenerare nella gente la convinzione che si tratti di un'attività legata al malaffare e che quindi debba essere regolamentata per evitare fenomeni corruttivi o, peggio ancora, che minano la democrazia. Ma, anche su questo, la maggioranza che sostiene il governicchio Draghi è spaccata, con la componente renziana determinata a far sentire il proprio peso, soprattutto dopo che la Corte di Cassazione ha coraggiosamente smontato le accuse dei magistrati di Firenze contro lo stesso Renzi, Maria Elena Boschi e Luca Lotti per la Fondazione Open. O forse, per Super Mario, insieme al suo invadente guru bocconiano e ai suoi prodi ministri, da Franco a Giovannini, le lobby da regolamentare sono sempre e solo quelle degli altri? Per gli Usala normativa in materia serve soprattutto a favorire la responsabilità dei decisori politici. Mentre in Italia, per via delle «giavazzate», le aziende pubbliche vanno a fondo sull'esempio di Saipem o vengono decapitati i loro manager, in questo caso, davvero migliori.

 

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