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Crisi Ucraina, Mario Draghi fa il falco degli Usa: la trasformazione del premier

Carlantonio Solimene
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«Abbiamo invitato il presidente del Consiglio a utilizzare toni più pacati, perché l'Italia ha una lunghissima tradizione di diplomazia di primissimo piano che va assolutamente valorizzata». Lo ha detto, alcuni giorni fa, il capogruppo della Lega al Senato Massimiliano Romeo. Dando voce, in realtà, al retropensiero di molti. E cioè che Mario Draghi, nelle settimane di questa crisi russo-ucraina, abbia talvolta premuto un po' troppo il piede sull'acceleratore, almeno dal punto di vista verbale. E ciò giustificherebbe anche la decisione di Mosca di mettere più volte l'Italia al centro delle sue intemerate, a differenza di altri partner europei - dal francese Macron al tedesco Scholz - che con il Cremlino non hanno mai tagliato totalmente i ponti. Per lo meno, per provare a dissuaderlo dall'escalation militare.

Che Draghi tenda a essere eccessivamente esplicito nella gestione della diplomazia non è in realtà una novità in assoluto. Circa un anno fa si rischiò l'incidente con la Turchia dopo che il premier italiano aveva definito Erdogan «un dittatore di cui però c'è bisogno». Fatta la tara a un eloquio mai banale, è innegabile però che qualcosa, nella gestione dei rapporti con Putin, nelle ultime settimane sia decisamente cambiato.

E a giustificarlo, forse, non basta l'inizio delle operazioni militari nell'Europa dell'Est. Per farsi un'idea, si può tornare al 22 dicembre scorso quando, in occasione della conferenza stampa di fine anno, su una situazione che al confine russo - ucraino si stava già facendo tesa, Draghi usò toni felpatissimi. A Biden che chiedeva all'Europa di accelerare sulle sanzioni sul gas, il premier rispose sostanzialmente picche: «Siamo veramente capaci di farlo? Siamo forti abbastanza? È il momento giusto? Chiaramente la risposta è no».

E ancora: «L'Ue deve mantenere uno stato di "ingaggio" con il presidente Putin», anche perché i contatti telefonici cercati con Biden dal russo «sembrano indicare che degli sviluppi che non portino a decisioni irreversibili siano ancora possibili». Una posizione prudente, pragmatica, con un occhio alle necessità economiche del Paese - il gas russo - più che ai desiderata statunitensi. Certo, poi la guerra è scoppiata sul serio ed era inevitabile che l'atteggiamento con Putin cambiasse sostanzialmente. Ma Roma, a differenza di Parigi e Berlino, ha dato l'idea di non credere mai sul serio alla via diplomatica. Il giorno stesso dell'invasione Draghi liquidò ogni ulteriore trattativa: «Le azioni della Russia in Ucraina di mostrano che il dialogo è impossibile».

Un concetto ribadito, peraltro, in più occasioni, anche in questi ultimi giorni: «È Putin che non vuole la pace». L'opinione è condivisibile e condivisa esplicitamente da altri leader europei. Che, però, nonostante questo non hanno rinunciato a dialogare con il presidente russo, persino quotidianamente, come ha fatto il francese Macron. Mentre la più volte annunciata visita di Draghi a Mosca non si è mai svolta e solo tre giorni fa il premier ha aperto a un suo imminente colloquio con il capo del Cremlino.

Un altro episodio che ha in qualche modo gettato un'ombra sull'eccessiva durezza del premier italiano è il discorso pronunciato dopo l'intervento di Volodymyr Zelensky al Parlamento italiano. In quell'occasione Draghi non solo ha detto che «noi vogliamo l'Ucraina nell'Unione europea», posizione per nulla unanime a Bruxelles, ma ha anche calcato la mano sulla necessità dell'invio di armi a Kiev. Anche in questo caso un concetto banale - l'Italia, con gli altri partner europei, lo sta già facendo - ma apparso fuori luogo dopo che il presidente ucraino, a dispetto dei timori di molti, aveva pronunciato un discorso «alto» e senza particolari rivendicazioni belliche. In quanto agli armamenti, poi, Draghi ha finito con il solleticare gli umori della maggioranza su un tema, le spese militari, vissuto con sensibilità assai diverse.

L'impuntarsi sul 2% del Pil da dedicare alla Difesa, in particolare, presenta aspetti delicati. Un po' perché, come ha ammesso lo stesso premier - stavolta con il piglio dell'economista - l'Ue già adesso investe in armamenti il triplo rispetto alla Russia, ma lo fa male. E cioè con 27 politiche differenti invece che con un esercito unico. Un po' perché l'impegno con la Nato non è vincolante, non essendo mai stato ufficialmente recepito dal Parlamento italiano. Tanto più che sono ben lontanti da quell'obiettivo altri autorevoli partner continentali, come la Germania (1,4% del Pil).

L'accelerazione, peraltro, è avvenuta dopo giorni in cui il premier, con l'ausilio del ministro Franco, ha più volte ribadito il suo no a uno scostamento di bilancio per tamponare gli effetti del caro-energia. Mettere in correlazione i due aspetti, come ha fatto Giuseppe Conte, può essere pretestuoso e populista. Ma anche dimostrarsi più realista del re (Biden) può apparire provocatorio. A meno che non ci sia altro (aspirazioni atlantiste?) a giustificarlo.

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