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Con il voto sulle armi si passa dalla maggioranza Ursula a quella Ucraina

Riccardo Mazzoni
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Nel videomessaggio per chiedere la reinvestitura a capo supremo dei Cinque Stelle, Conte ieri ha definitivamente dismesso il doppiopetto da ex premier per indossare il gilet giallo, vellicando l’ala estrema del Movimento nel tentativo maldestro di recuperare la purezza originaria del grillismo perduto. È stato il pronunciamento di un leader improvvisato che, dopo essere salito dal nulla fino alle vette di Palazzo Chigi e aver guidato due governi di opposto colore, maneggiando le peggiori armi del trasformismo parlamentare, ora si propone come il Masaniello che ripudia le stanze dei bottoni per ergersi a simbolo del populismo vicino alla gente e ai territori. Un paradosso, per chi è entrato in politica senza mai presentarsi alle elezioni e che per paura di perdere ha perfino rifiutato di correre alle suppletive romane. Se non fossimo in mezzo alla tragedia di una guerra, quest’ultimo capitolo dell’epopea contiana potrebbe essere archiviato come folklore tipico della variegata galleria di personaggi inventati da Grillo. Ma la faccenda è invece terribilmente seria, perché il Movimento resta la prima forza di governo e nelle prossime due settimane la maggioranza è attesa da due appuntamenti cruciali: il decreto Ucraina al Senato, con l’ordine del giorno presentato da Fratelli d’Italia sull’aumento delle spese militari, e soprattutto il Documento di economia e finanza sul quale non saranno ammesse defezioni.

Conte è notoriamente l’uomo delle giravolte, ma se verrà rieletto con l’usuale plebiscito delle piattaforme grilline stavolta gli sarà difficile ripudiare il programma «rivoluzionario» appena presentato, in cui non solo conferma il no all’aumento delle spese militari – dimenticando di averlo sottoscritto lui stesso al vertice Nato del 2019 – ma lancia anche anatemi contro il nucleare e il carbone nel momento in cui la crisi energetica richiede approcci ben diversi dall’ambientalismo ideologico. La strada che ha imboccato, insomma, è a tutti gli effetti quella del «tanto peggio, tanto meglio», nel disperato tentativo di recuperare consensi lucrando sul malessere che le sanzioni alla Russia inevitabilmente provocheranno al corpo sociale del Paese, già stremato da due anni di pandemia. Un calcolo basato in parte sulla convenienza politica spicciola, e in parte retaggio dei pregressi rapporti con Mosca.

 

 

 

 

Ora, la dissociazione del Movimento dalla ferma linea atlantista di Draghi, che ha appena confermato l’impegno di aumentare le spese militari fino al due per cento del Pil, apre una faglia gravida di incertezza dentro la maggioranza e ripropone tutti i dubbi sulla metamorfosi incompiuta del Movimento nonostante quattro anni di governo. Sono ormai lontani i tempi in cui Zingaretti considerava Conte l’insostituibile punto di riferimento del progressismo, ma il Pd di Letta continua comunque a ritenerlo un alleato strategico, e questo improvviso ritorno al frontismo grillino, con sulla tolda un Don Chisciotte che si dice pronto a battersi contro tutto e contro tutti, spazza finalmente via anche il miraggio della «maggioranza Ursula» che schiere di politologi avevano ipotizzato per spedire la Lega all’opposizione. Salvini in queste settimane ha ondeggiato tra atlantismo e pacifismo, ma il voto del Carroccio al Senato sulle spese militari non è in discussione, e se i Cinque Stelle si dissociassero si formerà quindi una «maggioranza Ucraina» col voto anche di Fdi.

Una combinazione che non potrebbe però essere replicata sul Def: Conte dunque gioca le sue carte sul crinale insidioso della crisi di governo e indebolisce così l’immagine internazionale del Paese in un momento che non ammette ambiguità. Di Maio infatti ha già preso le distanze dal suo presunto leader, e vedremo se lo faranno anche le sue truppe in Parlamento. In quel caso finirà la lunga guerra di posizione che sta dilaniando il Movimento, e Conte perderà il suo Donbass politico prima ancora di averlo conquistato.
 

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