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Politiche energetiche fallimentari, la decrescita ideologica cui ci ha condannato la sinistra

Benedetta Frucci
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Per anni buona parte della sinistra, poi coadiuvata dal Movimento Cinque Stelle, ha coltivato la politica dei no foraggiando l’ambientalismo della decrescita e creando nei cittadini la falsa idea di vivere nell’unico Paese d’Europa che aveva cura del paesaggio e della salute dei suoi abitanti. Oggi, con la guerra in Ucraina, candidamente ci sorprendiamo di quanto fallimentari siano state le politiche energetiche attuate.

Abbiamo espresso un no ideologico al nucleare, mentre a pochi chilometri dai nostri confini i vicini di casa producevano energia tramite le centrali, da cui noi l’acquistiamo a prezzi nettamente superiori. Siamo il Paese che ha osteggiato in modo talebano il Tap, il gasdotto pugliese che attraversa il Mar Adriatico e che consente l’arrivo in Italia di oltre 25 milioni di metri cubi di gas al giorno.

Un’opera fondamentale, non ancora al pieno delle sue capacità, a causa dei ritardi determinati dal partito del no: dal Governatore pugliese Michele Emiliano, a Massimo D’Alema, al celebre «bloccheremo quest’opera in due settimane», pronunciato dai barricadiero nostrani a cinque stelle. Oggi ovviamente, tutti pentiti a invocare il Tap e, mentre il Governo annuncia di volerne raddoppiare la portata, il grillino Di Stefano ammette di aver cambiato idea. Serve un conflitto, ad alcuni, per comprendere l’ovvio.

Per non parlare della polemica sui rigassificatori di Taranto, condotta dalla sinistra della decrescita, sonoramente bocciati 10 anni fa e, in questi giorni, magicamente ricomparsi nel dibattito pubblico.

Dal canto suo il premier Mario Draghi, parlando la scorsa settimana alla Camera, ha giustamente sferzato la politica energetica dei Governi precedenti, parlando di sottovalutazione del problema ma dimenticando, forse, che chi ci ha provato è stato, come nel caso del Tap, accusato di voler deturpare il sacro paesaggio italico.

L’aspetto più incredibile dell’intera vicenda, però, non è solo la forte dipendenza energetica, quasi totale, visto che il 94% del gas che utilizziamo deriva dall’estero. E non è nemmeno il no ideologico alla costruzione di nuove infrastrutture, ma l’inutilizzo di quelle già esistenti.

Come rivelato da un servizio di «Fuori dal coro», in Italia vi sono ben 1298 punti di estrazione, di cui 752 inattivi. Nel 2000 estraevamo 17 miliardi di metri cubi di gas, ridotti ad oggi alla misera cifra di 800 milioni: il 95 percento in meno. Le stime parlano di 140 miliardi di metri cubi di gas non estratto; in pratica, quasi tutti i pozzi produttivi italiani non sono in funzione. In un anno, spiegano gli esperti, se fossero riattivati, potremmo avere un approvvigionamento di gas di 10 volte superiore all’attuale, in tempistiche brevi, pochi mesi.

Perché questi pozzi non vengono rimessi in funzione? Blocchi amministrativi, dicono. In buona sostanza, basterebbe l’intervento del Governo per farli tornare in funzione. Con questo, non si risolverebbe certo il problema di dipendenza energetica dell’Italia, ma intanto, sarebbe un inizio. Sperando che tutta questa vicenda insegni agli italiani che la via della decrescita, più che un felice ritorno all’ Eden, porta dritto alle palafitte.

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