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Draghi fa lo scaricabarile, la crisi ucraina la paghiamo noi

Carlantonio Solimene
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«Servono investimenti privati, investimenti pubblici nazionali e una strategia di investimenti comune europea». Era stato lapidario il presidente francese Emmanuel Macron aprendo il summit Ue a Versailles, giovedì. Eppure, nell’intervento con il quale Mario Draghi ha dato la sua lettura sugli esiti del vertice, i primi due aspetti sono stati praticamente assenti. ]E l’accento è stato posto esclusivamente sul terzo: la necessità che sia l’Unione europea a sobbarcarsi i cascami economici del conflitto russo-ucraino. Perché i margini di manovra sul bilancio italiano sono quelli che sono, praticamente nulli. «Noi abbiamo già speso 16 miliardi contro i rincari» puntualizza Draghi. Di più non si può. E allora c’è bisogno che ad allargare i cordoni della borsa sia Bruxelles.

 

Facile a dirsi, molto più complicato tradurre gli auspici in realtà. Perché il vertice di Versailles sarà stato pure «epocale» - come è stato definito da molti partecipanti - per la decisione di correre verso una difesa comune da finanziare con fondi molto più cospicui e per la scelta di affrancarsi dai fornimenti energetici russi. Ma un conto è l’impegno, un altro è raggiungere il risultato. Specie su un tema come la Difesa, dove il Consiglio europeo può deliberare solo all’unanimità. E c’è chi ha già messo le cose in chiaro, come il premier olandese Mark Rutte: «Questi tipi di spese vanno fatti principalmente a livello di bilanci nazionali». O la premier svedese Magdalena Andersson: «Alcuni Stati cercano sempre nuovi motivi per non pagare le proprie spese». Se il buongiorno si vede dal mattino...

 

Chi si aspettava, insomma, l’annuncio di nuovo debito comune è rimasto deluso: «Non si è parlato di eurobond, io ho ritenuto che non fosse maturo il momento. Ho presentato l’esigenza e la Commissione poi presenterà una proposta che certamente andrà più in dettaglio» ha chiosato Draghi. E lo stesso Macron ha spiegato che «dobbiamo metterci d’accordo sugli obiettivi e poi sugli strumenti. Se iniziamo con gli strumenti, conoscendo le nostre divisioni in generale, perdiamo tempo e non avanziamo».

 

Ma gli strumenti sono un tema cruciale. La Germania, insolitamente arroccata sul basso profilo, ha fatto trapelare l’ipotesi di utilizzare i prestiti non richiesti del Recovery Fund. Peccato che l’Italia sia, con Grecia e Romania, tra i pochi Paesi ad aver opzionato già tutte le erogazioni europee. E quindi anche su questo fronte parta da una posizione svantaggiata.

Come reagire quindi alla crisi energetica? Draghi lancia una serie di ricette ambiziose: parla di un «tetto al prezzo del gas», ipotizza di «sganciare i prezzi dell’energia prodotta da fonti rinnovabili dal mercato del gas» e spiega di aver messo sul tavolo la possibilità di «tassare gli extraprofitti per le società elettriche». Un punto, quest’ultimo, che «potrebbe garantire un gettito di circa 200 miliardi», e sul quale «molti Paesi sono d’accordo». Ma molti vuol dire non tutti. E, anche ammesso lo si possa fare, determinerebbe uno svantaggio competitivo nei confronti di chi decidesse di non farlo.

Per inciso, nella dichiarazione finale del vertice tutti questi dettagli non ci sono. Si parla semplicemente di ridurre la dipendenza energetica della Ue dalla Russia e, al proposito, si delega la Commissione europea a proporre un piano «REPowerEU» a tale scopo «entro la fine di maggio». Non proprio domani.

Non c’è solo il tema energentico. C’è la gestione dei profughi, la necessità di ammortizzare l’impatto delle sanzioni sull’economia reale, gli impegni sulla spesa militare con la Nato, la lotta al cambiamento climatico. «Ci vorrebbe una cifra tra 1,5 e 2 trilioni di euro in 5-6 anni» dice Draghi. «Una cifra - aggiunge - che nessuno Stato, virtuoso o meno, può trovare nei propri bilanci». E l’Italia meno degli altri.

Non resta che aspettare il Consiglio Europeo di fine marzo dove ci sarà la discussione «formale» e quello «straordinario» che si profila per maggio. Nel frattempo la crisi morde e dallo stesso Mario Draghi, che ha pronunciato la parola «recessione» (salvo poi frenare) e ha invitato a «prepararsi per scongiurare l’economia di guerra», ci si aspettava qualcosa di più. Certo, non era il vertice di Versailles il luogo dove discettare di politiche nazionali. Ma l’attesa per qualche intervento concreto resta. Da giorni si ipotizza di dare una sforbiciata alle accise che pesano per il 55% sul prezzo finale della benzina. L’Irlanda lo ha già fatto, temporaneamente, alcuni giorni fa. Se non ora quando?

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