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L'idroelettrico è un asset da proteggere. No alla svendita, allarme del Copasir

Riccardo Mazzoni
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Draghi ha usato il bastone per rimproverare l'imprevidenza della politica, negli ultimi venti anni, sul fronte dell'approvvigionamento energetico. I numeri sono in effetti impietosi, visto che l’uso del gas estratto in Italia è passato dai 17 miliardi di metri cubi del Duemila ai tre miliardi del 2020, nonostante il fabbisogno di 80 miliardi di metri cubi sia rimasto invariato. La strada indicata dal premier per sottrarsi alla dipendenza dalla Russia è quella del mix energetico basato sulle risorse interne. A questo proposito, c’è un buco nero nella politica del governo sul quale il Copasir ha aperto un importante focus nell’ultima relazione sulla sicurezza energetica incentrando in particolare la sua attenzione sull’idroelettrico, fonte pulita e strategica che assicura circa il 20 per cento della produzione totale di energia e oltre il 40 delle rinnovabili. Ma il numero più sensibile in prospettiva è che l’85% dell’energia viene prodotto dai grandi impianti le cui concessioni scadranno in gran parte del 2029, una data che sembra lontana ma che nell’ottica della nostra indipendenza energetica è terribilmente vicina, perché questo ben di Dio sta per andare a gara spalancando le porte ai colossi dell’industria e della finanza europea. E qui bisogna fare un passo indietro: l’obbligo di porre a gara le cosiddette «grandi derivazioni» discende da una direttiva europea per la quale l’Italia si è vista recapitare, come altri Paesi comunitari, un procedimento di infrazione per inadempienza che però è stato archiviato nel settembre 2021. Tutto bene, dunque?

 

 

No, perché l’esito della vicenda rischia di essere paradossale: mentre gli altri Stati membri stanno prolungando infatti la durata delle concessioni agli attuali gestori interni di decine di anni, l’Italia sta per mettere a gara questo prezioso tesoretto energetico. Tanto che il Copasir non usa giri di parole per mettere in guardia il governo: «Nel contesto europeo - si legge nella relazione - l’Italia è l’unico Paese ad aver adottato una disciplina per l’assegnazione delle concessioni idroelettriche orientata a una completa liberalizzazione e apertura alla concorrenza, introducendo i principi di temporaneità delle concessioni e di contendibilità». In pratica, attivare le gare favorendo gestori stranieri in un momento di emergenza energetica destinato a prolungarsi per anni, significherebbe essenzialmente due cose, entrambe negative: prima di tutto l’idroelettrico italiano diventerebbe il cavallo di Troia per i programmi di espansione di gruppi collegati con settori industriali concorrenti ai nostri; e questo potrebbe danneggiare le nostre industrie, proprio nel versante cruciale delle forniture energetiche, appesantendo una situazione già molto grave con possibili conseguenze anche occupazionali.

 

 

Uno scenario talmente rischioso, insomma, da suggerire il proseguimento con gli attuali gestori, imponendo magari loro le inderogabili azioni di efficientamento del settore. Invece sta accadendo il contrario: le Regioni, in corsa verso il disastro, stanno procedendo - obbligate dalla legge - con l’iter per predisporre le gare, una deriva in evidente contrasto con l’interesse nazionale, che passa invece per il mantenimento in mani italiane dell’idroelettrico almeno fino a quando i partner comunitari non procederanno davvero con le gare: è anche una questione di reciprocità prevista dai trattati europei. Draghi non ha fatto alcun accenno alla questione nel discorso in Parlamento sulle conseguenze energetiche della crisi ucraina, ma sarebbe un grave errore eludere le preoccupazioni del Copasir, che propone un immediato cambio di rotta su questa risorsa che costituisce un innegabile caposaldo della sicurezza energetica nazionale. Un’opzione sempre più strategica e quindi da preservare: in una contingenza storica così drammatica, si può e si deve fare uno strappo alle leggi della concorrenza e a direttive che rispettiamo solo noi.

 

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