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Il futuro incerto dei ministri 'draghiani', mollati dai loro partiti. "Troppo vicini al premier", ora rischiano l'esclusione

Carlo Solimene
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Il peccato originale è stato di Mario Draghi. Che, al momento di formare il governo, si è guardato bene dall'alzare la cornetta per chiedere ai leader «suggerimenti» sulla squadra di governo. Il resto lo hanno fatto loro, i ministri «della discordia». Che avrebbero potuto recitare un ruolo di cerniera tra premier e partiti ma hanno preferito farsi «draghiani» fino in fondo, scommettendo sulla possibilità che l'esperienza dell'ex capo della Bce a Palazzo Chigi potesse in qualche modo prolungarsi anche dopo il 2023. E adesso sono in mezzo al guado, sperando che l'insofferenza del premier per le intemperanze dei partiti non raggiunga il livello di guardia e che in Parlamento prenda forma una legge elettorale proporzionale. Che riaprirebbe la strada alle larghe intese anche dopo il voto.

 

 

Il caso più eclatante è quello di Renato Brunetta. Si dice che il feeling con Draghi nacque nel 2008, all'epoca in cui l'allora governatore della Banca d'Italia era ai ferri corti con Giulio Tremonti, potente ministro dell'Economia del Berlusconi IV. Per Brunetta, che di Tremonti non era amico (eufemismo) fu naturale instaurare un rapporto di stima con colui che oggi siede a Palazzo Chigi e che subito l'ha arruolato nell'esecutivo. Fatto sta che, quando qualche giorno fa Forza Italia si è smarcata sulla riforma del catasto, l'economista veneziano non ha provato a minimizzare la frattura. Anzi, si è schierato platealmente contro il suo partito, definendo «incomprensibile» l'opposizione dei colleghi azzurri. Così come ha vissuto malissimo il nodi Berlusconi alle ambizioni quirinalizie di Draghi. Meno loquace ma ugualmente a disagio è Mara Carfagna. Che, in Forza Italia, era considerata «eretica» ben prima del governo Draghi. Non a caso aveva lanciato una corrente, «Voce libera», che vantava contributi non proprio organici al centrodestra, come l'economista Carlo Cottarelli. «Associazione inutile e divisiva» la bollò Berlusconi. In Forza Italia ormai si parla di lei come un corpo estraneo. Stando a quanto riferisce Repubblica, sarebbe anche in ritardo con i versamenti al partito. «Non ci risulta» replicano dallo staff della ministra. In ogni caso, la prova di una certa mancanza di comunicazione tra le parti.

 

 

Altro caso emblematico è quello di Giancarlo Giorgetti. Dopo i ripetuti scontri con Salvini si era imposto il silenzio stampa («non so gestire i rapporti coi giornalisti» aveva detto dopo l'ennesima intervista-gaffe) ma aveva continuato a tessere la tela delle larghe intese, concedendosi allegre serate in pizzeria con Luigi Di Maio, altro ministro che se dovesse scegliere chi buttare dalla torre tra Mario Draghi e il suo leader Giuseppe Conte non avrebbe esitazioni. Poi, Giorgetti, si è recato al congresso di Azione! e a Calenda ha prospettato «ampi spazi di collaborazione». E qualcuno ha ricordato come, alla vigilia delle Amministrative di Roma, il numero due del Carroccio avesse benedetto proprio Calenda a discapito di Michetti. Come dire: il lupo perde il pelo... E poi ci sono le figure di sottogoverno. Che, talvolta, alle ragioni dell'esecutivo sacrificano quelle dei partiti di appartenenza. È notorio come l'intemerata contro i no vax del sottosegretario Pier Paolo Sileri abbia irritato più d'uno tra i Cinquestelle, impegnati ora a riposizionarsi sulla linea anti-green pass. Quel suo «gli renderemo la vita difficile» rivolto a chi aveva rifiutato la vaccinazione fece esplodere la rabbia nelle chat pentastellate, con Virginia Raggi pronta a benedire eventuali iniziative interne per cacciarlo dal Movimento.

E c'è, infine, Maria Cecilia Guerra. Che qualche guaio è riuscito a procurarselo persino tra gli «iper draghiani» del Partito democratico. Perché la sua risolutezza nel minacciare la crisi di governo se non fosse passata in commissione la riforma del catasto non è andata proprio giù a chi, nonostante tutto, rivendica la centralità del Parlamento. Per i vari separati in casa saranno cruciali i prossimi mesi. A dispetto dei loro desideri, i leader non sembrano disposti a stendere i tappeti a una nuova stagione di larghe intese. Almeno non prima del voto. I posti da parlamentari diminuiranno, le liste saranno cucite su misura dei vari segretari e ci sarà poco spazio per i pontieri: «Voglio solo gente con gli occhi della tigre» ha detto il pur mite Enrico Letta. In quel caso i «draghiani» sarebbero i primi a saltare. Ma le vie del proporzionale sono infinite. E un partito del premier (anche senza il premier) resta il sogno inconfessato.

 

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