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Piercamillo Davigo e la nemesi del Movimento 5 Stelle. I gemiti di dolore e la mistificazione della realtà di Marco Travaglio

Andrea Amata
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Nei giorni in cui si celebrano i fasti giudiziari del pool di Mani pulite, a 30 anni dal suo esordio investigativo, il gup di Brescia rinvia a giudizio Piercamillo Davigo contestandogli il reato di rivelazione di segreto di ufficio. L'ex consigliere del Consiglio superiore della magistratura e protagonista dell'inchiesta Tangentopoli, che decapitò all'inizio degli anni '90 un'intera classe politica, dovrà sottoporsi a processo per aver diffuso dei verbali coperti da segreto istruttorio in merito alle dichiarazioni dell'avvocato siciliano Piero Amara sulla presunta esistenza della «loggia Ungheria». A Piercamillo Davigo viene attribuita la paternità di un precetto aberrante - «non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti» - che se fosse applicata al suo autore potrebbe rivelarsi una nemesi giuridica, riparatrice di una colpa culturale per aver diffuso negli anni una veemente cultura giustizialista che ha stroncato carriere politiche, facendo coincidere l'avviso di garanzia con il verdetto di colpevolezza. Il populismo giudiziario è stato incarnato dal Movimento 5 Stelle che ha elevato l'ex pm Davigo a simbolo della scorciatoia giustizialista, invocando mezzi sbrigativi con la carcerazione preventiva e anticipando la condanna con sommari processi mediatici allo scopo di maramaldeggiare sull'indagato in spregio al principio costituzionale della presunzione di innocenza. Questa costituisce un valore di civiltà giuridica che non dovrebbe essere intaccato dal cosiddetto fattore M, cioè dal combinato disposto di magistratura e media che si fondono in un processo di reciproca connivenza, enfatizzando l'incriminazione verso i titolari di cariche pubbliche e minimizzando l'eventuale accertamento dell'estraneità ai reati contestati.

 

 

Tuttavia, nel mentre si pregiudicano irreversibilmente le carriere politiche sin dall'introduzione dell'iter di indagine. Dalle fasi embrionali del procedimento giudiziale agisce sull'indagato la pressione del patibolo mediatico che precorre la sentenza di condanna che diventa soverchiante anche se l'impianto accusatorio dovesse essere smantellato dall'avvenuta assoluzione. Ieri, in un editoriale dalla elevata tossicità giustizialista, Marco Travaglio vestiva i panni della prefica, emettendo gemiti di dolore per il rinvio a giudizio del suo paladino Davigo e non risparmiandosi nella perorazione del modello giacobino di cui è il massimo rappresentante. La solita mistificazione della realtà che è figlia di una lettura ideologica degli eventi. Il rinvio a giudizio di Davigo non è una congiura ordita da chi vuole disinnescare le guardie e blandire i ladri come evoca la narrazione travagliesca. Semmai è la sconfitta di una demagogia giustizialista andata avanti per 30 anni, che ha inquinato le istituzioni e il dibattito pubblico, creando l'humus sociale per la nascita di un partito dove l'ignoranza e l'incompetenza sono criteri di accesso nella rappresentanza.

 

 

L'eredità del giustizialismo è stata raccolta dal Movimento 5 stelle che ha prosperato su quel sentiment, riconducendo ogni interpretazione politica alla matrice moralistica attraverso processi sommari a mezzo stampa e web, dove i tre gradi di giudizio vengono compressi e riassunti nell'avviso di garanzia equiparato alla colpevolezza. In tale primitiva semplificazione si cerca il sensazionalismo incriminante e non la giustizia, e i cittadini non sono concepiti come potenziale coscienza critica ma come tricoteuse in attesa di vedere la prossima testa rotolare. Ora, si salo scettro moralistico è abbagliante, sì, ma allo stesso modo scotta. Tanto. E chi decide di impossessarsene prima o poi si brucia. La realtà è questa qui. Davigo non è un colpevole che sta cercando di farla franca, al contrario è un innocente fino al terzo grado di giudizio nonostante ciò che pensi lo stesso Davigo e i suoi cantori.

 

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