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Bisogna mettere al riparo i governi dai giudici politicizzati: immunità parlamentare da ripristinare

Riccardo Mazzoni
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A trent'anni da Mani Pulite - l'inchiesta purificatrice che ha lasciato dietro di sé più macerie giudiziarie che benefici all'etica pubblica - la politica non è ancora riuscita a riportare in equilibrio i poteri dello Stato dopo tre decenni di populismo contrassegnati dal dominio assoluto dell'ordine giudiziario. Ora la riforma della giustizia, resa urgentissima dallo scandalo Palamara, corre su due binari paralleli: quello parlamentare col testo Cartabia e quello referendario. Sono entrambi passi avanti per ristabilire i principi costituzionali come la ragionevole durata dei processi e la presunzione d'innocenza, ma il nodo fondamentale che la politica non ha il coraggio di affrontare è un altro: il ritorno all'immunità parlamentare che il Parlamento cancellò quasi del tutto sull'onda delle forche giacobine che venivano erette nelle piazze mediatiche. Spulciando gli archivi, c'è un editoriale del Financial Times Deutschland uscito nel 2009, quando era partita l'offensiva finale contro il premier Berlusconi, che meglio fotografa l'anomalia giudiziaria italiana: «Un governo eletto democraticamente dal voto popolare non può essere dimissionato dai magistrati: può darsi che Berlusconi sia un furfante, ma gli italiani che lo hanno eletto tre volte presidente del consiglio erano esaurientemente informati, e lui ha il diritto di poter governare. Naturalmente bisogna chiedergli conto delle sue macchinazioni, ma non può essere facoltà di pochi giudici decidere la fine del suo mandato. In una democrazia è privilegio del sovrano, quindi del popolo o dei suoi rappresentanti eletti, rimuovere il capo del governo». Il succo dell'editoriale era chiarissimo: in Italia, ogni governo di qualsiasi tendenza politica è lasciato indifeso di fronte ad una giustizia altamente politicizzata.

 

 

In nessun'altra democrazia occidentale i giudici sono così potenti, pertanto l'Italia ha bisogno di una legge che ponga dei limiti alla giustizia e tuteli i vertici dello Stato dalla persecuzione giudiziaria, «anche se a tal fine fosse necessaria una modifica della Costituzione». In realtà il centrodestra ci aveva provato, prima col lodo Schifani e poi col lodo Alfano, che trovarono entrambi, però, un muro invalicabile nella Consulta, nonostante che il secondo fosse stato scritto seguendo riga per riga le indicazioni date proprio dai giudici costituzionali quando avevano respinto il lodo Schifani. Nulla di sorprendente, vista la costante prevalenza della sinistra nella composizione della Corte. Eppure quei due lodi erano solo il tentativo di rimediare all'errore politico-costituzionale commesso nel '93, quando fu abrogata con voto quasi unanime la garanzia della necessaria autorizzazione a procedere nei confronti dei parlamentari, per reati comuni, prevista dai costituenti contro iniziative in ipotesi persecutorie della magistratura. L'autorizzazione a procedere sanciva un equilibrio ragionevole tra potere politico e giurisdizione, un equilibrio che è stato alterato sia dalla modifica dell'articolo, sia dall'affermazione progressiva di frange della magistratura militante che mischiano i giudizi politici con le sentenze penali.

 

 

Invece, la supplenza della magistratura propugnata da Borrelli quando il pool di Milano dettava letteralmente legge è entrata poi di fatto nella Costituzione materiale del Paese, e lo strapotere dell'ordine giudiziario ha prodotto altre aberranti teorizzazioni, come quando l'allora magistrato Ingroia arrivò a proporre una sorta di sospensione della democrazia per dar modo a entità non meglio precisate di fare «pulizia etica» attraverso il commissariamento di governo e Parlamento. Ma le anomalie non finiscono qui: basti pensare a tutte le volte in cui il Csm ha agito di fatto da terza Camera, pretendendo di giudicare cosa il Parlamento e il governo debbano o non debbano fare, con ciò stravolgendo il principio della divisione dei poteri. O alle mille occasioni in cui l'Associazione magistrati è intervenuta con forme, modalità e contenuti propri di un partito politico o di un gruppo parlamentare. Nessuna democrazia può sopportare che la sovranità venga trasferita dal popolo ai pubblici ministeri. Da qui la necessità di provare a «tornare alla Costituzione», nella convinzione che l'articolo 68 non era una forzatura del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma solo un'attuazione e una garanzia dell'articolo 67 sulla libertà del mandato parlamentare. Finché non sarà sciolto questo nodo, sarà impossibile scongiurare ulteriori fibrillazioni istituzionali.

 

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