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Quirinale, per Berlusconi Mattarella fu eletto a tradimento dal Pd

Riccardo Mazzoni
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L’elezione di Mattarella è passata alla storia come la causa della rottura del Patto del Nazareno fra Renzi e Berlusconi, ma in realtà ne è stata più precisamente l’effetto, perché gli scricchiolii si erano manifestati da mesi, con una parte della classe dirigente di Forza Italia che contestava in modo sempre più netto quello che spregiativamente veniva definito un “inciucio a perdere”, al quale veniva peraltro attribuita la perdita di consensi del partito.

Dopo una luna di miele quasi stupefacente, che aveva portato per la prima volta Berlusconi a entrare con tutti gli onori nella sede del Pd, insomma, il rapporto fiduciario tra i due leader era entrato in crisi, tra incomprensioni, colpi bassi e sospetti crescenti, e nelle settimane che precedettero il voto per il Quirinale – gennaio 2015 – si era preferito parlare più di metodo che di nomi, in linea con la tradizione per cui le trattative per il Colle devono essere sempre ammantate da una sorta di  mistero. Dal punto di vista politico, la situazione era per certi versi simile a quella di oggi: senza un accordo sul Presidente, infatti, il Patto del Nazareno saltò, così come sarebbe impensabile che l’unità nazionale ora reggesse se dall’urna presidenziale uscisse un nome non concordato da tutta la maggioranza.

C’era però, allora, una sottintesa base di partenza che avrebbe potuto indirizzare il percorso verso una figura condivisa: Berlusconi infatti in più occasioni, nei numerosi incontri intercorsi, non aveva fatto mistero di preferire Giuliano Amato, politico ma anche giurista, nominato nel 2013 giudice della Consulta da Napolitano, un personaggio autorevole in grado di ottenere consensi anche nel Pd, partito peraltro a cui aveva a suo tempo aderito. Un nome quindi su cui Renzi non avrebbe potuto porre veti, mentre Berlusconi il suo no a Mattarella nei colloqui riservati lo aveva lasciato trapelare, eccome.

Ma il segretario-premier, con la consueta abilità manovriera tenne coperte fino all’ultimo le sue carte, pur dando prova di grande attivismo incontrando le delegazioni di tutte le forze politiche: un’ammuina, perché in realtà il suo vero candidato lo aveva in testa da tempo. La data cruciale segnata sul calendario quirinalizio, comunque, fu quella del 28 gennaio, all’immediata vigilia del primo voto a Camere riunite, quando era in agenda il vertice decisivo tra Rottamatore e Cavaliere. Un incontro finito malissimo, e per comprendere la fumata nera di quel duro faccia a faccia bisogna fare un passo indietro di qualche giorno, rileggendo i retroscena raccolti e pubblicati nei loro libri da Luigi Bisignani e Massimo Parisi.

Renzi non aveva preso affatto bene i contatti intercorsi tra Berlusconi e Alfano – di cui era stato tenuto all’oscuro - per vagliare l’ipotesi di appoggiare la candidatura di Pierferdinando Casini. Ma conseguenze ancora peggiori ebbe poi la conferma, datagli candidamente dallo stesso Cavaliere, degli abboccamenti da lui avuti con la minoranza del Pd, nella persona - sgraditissima all’interlocutore - di Massimo D’Alema, l’arcinemico per eccellenza che covava da anni propositi di vendetta contro il leader che lo aveva messo al primo posto nella lista dei rottamandi. Un’ammissione dunque che, agli occhi di Renzi, faceva rima con provocazione. Per cui se Berlusconi e D’Alema avevano convenuto che Amato era il miglior candidato bipartisan, per lui quello diventava un nome irricevibile, da depennare senza se e senza ma: “Non metto la faccia su un accordo fatto contro di me” - sibilò.

In realtà, come si evince dalla ricostruzione dei fatti, la scelta su Mattarella l’aveva già fatta, e l’incidente D’Alema non fu altro che un ghiotto pretesto per buttare all’aria il tavolo e stravincere la partita. Renzi rinfacciò al centrodestra di saper dire solo no: quello a Prodi era comprensibile, ma perché no a Cantone, e soprattutto no a Mattarella? Un lontano ma concreto motivo, in effetti, il Cavaliere ce l’aveva eccome: nel luglio del’90 Mattarella si era infatti dimesso dal governo Andreotti insieme agli altri quattro ministri della sinistra dc per contestare il varo della legge Mammì sull’emittenza televisiva, ritenuta troppo sbilanciata a favore delle tv di Berlusconi. Uno sgarbo che Sua Emittenza non aveva per nulla dimenticato.

A quel punto era chiaro che si sarebbe andati al voto senza alcun accordo: alla riunione dei grandi elettori di Forza Italia, il 28 pomeriggio, Berlusconi ammise che il nome ancora non c’era, mentre la mattina dopo Renzi avrebbe proposto ufficialmente Mattarella ai suoi gruppi parlamentari. Il tentativo di contromossa per ricompattare il centrodestra e sabotare così una candidatura sgradita, sperando in una rivolta a scrutinio segreto dei grandi elettori del Pd come era accaduto due anni prima per Prodi, si risolse in una pantomima che durò solo poche ore. Se non avesse votato Mattarella, infatti, l’Ncd sarebbe dovuto uscire dal governo, un’ipotesi che, grazie anche alla immediata controffensiva di Renzi, avrebbe messo in gravissima difficoltà Alfano. Il contrordine arrivò quindi quasi in tempo reale, e il giorno successivo, al quarto scrutinio, Mattarella fu eletto con 665 voti, raccogliendo non solo il consenso dei centristi, ma anche qualche decina di voti forzisti, nonostante l’indicazione di votare scheda bianca dimostrandolo con un rapido passaggio dal catafalco elettorale.

“È stato il Pd - avrebbe poi commentato amaramente Berlusconi - a cambiare le carte in tavola. Avevamo avviato una collaborazione per cambiare lo Stato, garantire al Paese una legge elettorale efficace, scegliere insieme gli elementi di garanzia del sistema, come il Presidente della Repubblica. Non tutto in questo percorso ci convinceva, ma il progetto era di tale importanza, da farci accettare anche alcune forzature e alcuni sacrifici, anche dolorosi. Purtroppo il Pd ha mostrato il suo vero volto, confermando di considerare le istituzioni un patrimonio da usare a proprio esclusivo vantaggio”.

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