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Sale la quota di Mario Draghi per il dopo Mattarella. Colao e Cartabia in pole per il governo

Carlo Solimene
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Con il piano A (Silvio Berlusconi) che sembra diradersi ogni giorno di più e il piano B (un altro candidato di centrodestra) che sconta oggettive difficoltà, per il Quirinale si fa strada inesorabilmente il piano C. Che poi sarebbe il D, ovvero l'iniziale di Mario Draghi. Che resta in «vigile attesa», ben sapendo che in questa delicatissima partita il tempismo è tutto. Perché se fosse lui a proporsi dovrebbe inevitabilmente sottostare alle condizioni dei partiti. Mentre se fossero questi ultimi a correre in ginocchio da lui, perché incapaci di sbrogliare la matassa nelle prime votazioni e in preda alle pressioni dell'opinione pubblica, sarebbe proprio il premier a poter dettare delle condizioni. L'oggetto del contendere è presto detto: il governo che dovrebbe insediarsi a Palazzo Chigi dopo il trasferimento di Supermario al Quirinale. Una questione che, ormai si è capito, non riguarda solo il nome del premier, ma anche la composizione della squadra dei ministri. È tutto qui l'ultimo piccolo grande ostacolo che separa l'ex governatore della Bce dal Colle più alto di Roma. L'opzione di un esecutivo con i leader di partito, lanciata da Matteo Salvini, sta difficilmente in piedi. Perché la convinzione comune è che un assetto così fragile, per essere tenuto in piedi e non far precipitare il Paese verso elezioni anticipate, vada modificato il meno possibile. Riaprire totalmente la questione della squadra di governo, insomma, sarebbe un rischio troppo alto che terrorizzerebbe il corpaccione parlamentare.

 

 

Lo stesso che, poi, nel segreto dell'urna presidenziale dovrebbe tramutare in successo l'eventuale accordo tra i leader. E così l'intesa potrebbe chiudersi su un premier «tecnico» scelto tra i ministri attuali (Vittorio Colao è in pole, resiste Marta Cartabia, perde quota Daniele Franco) e solo parzialissime modifiche alla squadra di governo. Magari con l'addio di altri tecnici (Bianchi? Giovannini? Lamorgese?) per dare qualche poltrona in più ai partiti e soddisfarne gli appetiti. Fin qui la teoria. A voler restare sulla cronaca, invece, la partita del Quirinale è al momento ancora inchiodata ai piani A e B. Perché Silvio Berlusconi non ha ancora sciolto la sua riserva sull'accettazione della candidatura (ma ha assicurato che lo farà entro domenica). E perché, ufficialmente, Matteo Salvini e Giorgia Meloni sono ancora al lavoro sul piano B. Il primo, in particolare, ha incontrato ieri Giuseppe Conte e presto dovrebbe vedersi anche con Enrico Letta. Sul tavolo avrebbe messo il nome dell'attuale presidentessa del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. Che, teoricamente, risponderebbe alla perfezione all'identikit tracciato da Conte all'inizio della partita. Donna, di centrodestra (e l'ex premier non aveva escluso di poter sostenere un esponente del campo a lui opposto) e, soprattutto, già votata dai Cinquestelle al vertice di Palazzo Madama, seppure si tratti di un'altra era politica che oggi appare lontanissima. Il punto è che per dire sì a Salvini peraltro mossosi senza l'avvallo degli alleati di centrodestra - Conte dovrebbe rompere con Letta, che di candidati di centrodestra non vuole sentirne parlare e che continua a chiedere una figura super partes.

 

 

Un ritratto che gira e rigira - porta sempre al punto di partenza: Draghi o Mattarella bis. Il ché, stante l'indisponibilità dell'attuale capo dello Stato, mette ancora una volta in pole Supermario. D'altronde, sia Letta che Di Maio sarebbero stati abbastanza chiari con Conte: «Riflettici, quali alternative abbiamo?» sarebbe stato il ragionamento fatto a «Giuseppi». Certo, per far digerire Draghi ai riottosi gruppi grillini l'ex premier dovrebbe dare la granitica certezza che non si vada a urne anticipate. Ma, sotto sotto, è lo stesso Conte a soffrire un passaggio del genere. Mandare al Quirinale l'uomo che lo ha sostituito a Palazzo Chigi e con il quale non c'è mai stato feeling non è al primo posto dei suoi desideri. E così la partita è destinata a restare in bilico ancora un bel po'.

 

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