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Per la sinistra ormai vale tutto. Pure paragonare Berlusconi al Diavolo

Riccardo Mazzoni
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L’ipotesi della candidatura di Berlusconi al Colle sta facendo riemergere tutti insieme gli istinti primordiali della sinistra che, come un camaleonte, gradua sempre i giudizi sugli avversari politici a seconda delle convenienze del momento, per cui il Cavaliere era fino a qualche settimana fa un affidabile partner di governo, un europeista convinto da coinvolgere, magari, nella futuribile maggioranza Ursula per tagliare fuori la Lega dal governo, mentre ora è tornato ad essere ridipinto nei panni del Diavolo che mette a repentaglio le istituzioni repubblicane.

 

Da qui gli appelli, espliciti e subliminali a Salvini e Meloni perché lo convincano a ripensarci. Nulla di nuovo, sia chiaro, dato che fino dalla Prima Repubblica il doppiopesismo non ha mai smesso di essere l’arma impropria usata dal Pci e dai suoi epigoni, che di volta in volta hanno usato come sponda prima De Mita contro Craxi, poi Bossi e Fini contro Berlusconi, e ora tentano di ripetere lo stesso schema con i due giovani leader del centrodestra in funzione anti Cav. Un disegno che nasce da lontano, insomma, costantemente teso a dividere l’altro fronte in nome della propria diversità morale. In questa perenne lotta del Bene contro il Male tutte le armi sono lecite, e quindi si può impunemente calpestare il principio di contraddizione sostenendo che Berlusconi è un nome altamente divisivo mentre Prodi, suo acerrimo, inviso e arrogante avversario negli anni del bipolarismo, era invece una figura super partes quando fu candidato da Bersani nel 2013. Questo fa parte del gioco, e chi si stupisce vive evidentemente in un mondo parallelo.

 

Ma anche il gioco più sporco ha le sue regole, e in questo senso la soglia della strumentalità e dell’impudicizia è stata ampiamente superata dall’ultima frontiera dell’antiberlusconismo militante, con un editoriale che ha addirittura prefigurato per l’Italia, se il piano del Cavaliere andasse in porto, un apocalittico «scenario americano», inteso non come approdo al presidenzialismo, ma come anticamera dello sfascio definitivo delle istituzioni.

Anche se non sta in piedi, il ragionamento è questo: la «pretesa» del centrodestra di «prendersi a maggioranza» il Quirinale sarebbe «uno sbrego costituzionale», perché lo scranno designato a rappresentare l’unità suprema del Paese verrebbe assegnato a una parte, e – durando il mandato presidenziale sette anni – con la sinistra messa alle porte il Paese resterebbe spaccato in due per questa lunghissima fase politica. Una sorta di lunga guerra civile fredda, dunque, con Berlusconi nei panni di Trump a tenere spaccato in due il Paese, come una mela, di cui lui rappresenterebbe ovviamente la parte marcia. Ma anche se non ce la facesse, per il solo fatto di aver pensato di candidarsi, si sarebbe reso comunque responsabile di aver creato un precedente molto pericoloso, scalfendo la sacralità dell’ultima carica costituzionale che sembrava aver resistito allo sfaldamento dei partiti.

 

Un’analisi che lascia basiti: raramente si era assistito a una rilettura così distorta della Costituzione, oltre che a una così devastante delegittimazione di una parte politica, che solo per aver osato, peraltro in base ai numeri parlamentari, chiedere al suo fondatore di candidarsi, si sarebbe resa colpevole di indirizzare le istituzioni verso una «deriva americana», come se la legittima aspirazione di Berlusconi al Quirinale fosse paragonabile all’assalto eversivo al Campidoglio di un anno fa a Washington. Una teoria ai limiti dell’incredibile, che va ben oltre il pregiudizio politico, perché argomentazioni del genere prefigurano la ghettizzazione ad libitum del centrodestra, che rappresenta la maggioranza quantomeno relativa degli italiani. Inutile dire che anche l’altro j’accuse, quello di voler «prendersi a maggioranza il Quirinale», è del tutto privo di fondamento, visto che quando lo ha fatto la sinistra con Napolitano e Mattarella nessuno si è permesso di adombrare alcun vulnus costituzionale, anche perché sono state operazioni pienamente previste dalla Costituzione. Ed è anche superfluo ricordare che presidenti eletti con maggioranze non ampie – Einaudi su tutti, ma anche Mattarella – hanno saputo incarnare al meglio il ruolo di garante. Escludere per il centrodestra il diritto di esprimere il Capo dello Stato è quindi uno sbrego non solo alla Costituzione, ma anche alla storia.
 

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