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Il Parlamento delle beffe: il bicameralismo non esiste più. Camera e Senato da salvare

Benedetta Frucci
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«Mai, dal 1948, si era vista una tale umiliazione del Parlamento». È quello che, ormai ogni anno, vanno ripetendo funzionari e parlamentari di lungo corso alla vigilia dell'approvazione della Legge di Bilancio. Ed effettivamente ogni dicembre il Governo, che sia dei migliori o dei peggiori, sembra alzare l'asticella: una delle due Camere viene a turno totalmente esautorata, per cui vige ormai in quasi ogni provvedimento un monocameralismo di fatto. Quest'anno si è andati oltre, costringendo la commissione Bilancio a lavorare in fretta e furia, con il risultato che in fondo questa Legge è stata validata, più che esaminata, dal Parlamento. In cambio della rinuncia alla propria dignità di rappresentanti della Camera Alta, i senatori hanno potuto portare a casa le consuete marchette finalizzate all'accaparramento di pacchetti di voti sui territori: emendamenti lontani dall'essere la traduzione delle esigenze locali e molto più vicini a quella che un tempo si chiamava la Legge Mancia, cioè una serie di contributi a pioggia destinati a essere assegnati sulla base delle indicazioni dei parlamentari. Scandalosa forse, ma almeno chiara nell'intento. Con il risultato che, osservando alcuni degli emendamenti approvati, viene quasi da fare il tifo affinché il Parlamento sia privato di ogni possibilità di intervento.

 

 

La questione non è banale. Il bicameralismo perfetto é un sistema anacronistico, superato nei fatti dalla necessità di prendere decisioni in tempi rapidi in un mondo che scorre a una velocità inimmaginabile 70 anni fa. L'abuso della decretazione d'urgenza è una conseguenza della lentezza del sistema, così come il sempre più assoluto predominio del Governo sul Parlamento, aggravatosi durante la pandemia fino a giungere, con i primi Dpcm di Giuseppe Conte, a una totale esautorazione. Il Governo Draghi ha sí ammorbidito questo aspetto nella gestione pandemica, affidandosi allo strumento del decreto legge, ma d'altro canto ha anche aggravato l'esautorazione del Parlamento grazie alla forza di Draghi, data dal largo sostegno dei partiti ma anche dal grande consenso che la figura del Premier suscita negli ambienti internazionali, economici, finanziari. La Costituzione materiale è ormai anni luce lontana da quella formale, vale a dire dalla lettera del testo: il Parlamento continua ad avere un peso decisivo nel fare e disfare governi, ma non incide poi sulle decisioni di essi.

 

 

Di fronte a un totale distacco della prassi dalla realtà, una riforma costituzionale sarebbe d'obbligo. Una nuova costituente potrebbe passare per la riforma della legge elettorale: eleggere il nuovo Parlamento con un criterio proporzionale e fare un patto per la riforma costituzionale. Un patto che potrebbe concretizzarsi in occasione dell'elezione del Presidente della Repubblica, che dovrebbe farsi garante del cambio di legge elettorale finalizzato alla riforma. Certo è che un sistema così lento e complesso come quello parlamentare a bicameralismo paritario si presta troppo facilmente ad essere forzato e superato dalla prassi. La democrazia liberale necessita, di fronte alla concorrenza dei sistemi autoritari, velocissimi nelle decisioni, di assumere la forma di una democrazia decidente. Che sia attraverso il sindaco d'Italia come lo chiama Renzi o il presidenzialismo che chiede Giorgia Meloni, servono regole chiare finalizzate non solo alla governabilità, ma anche al rispetto del Parlamento.

 

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