L'Europa svende l'identità: su tanti temi i liberali si sono arresi
No, in Europa la cancel culture non è la regola. Eppure, piano piano e insidiosamente, il peggio dell'intolleranza si sta facendo largo anche qui. Di fronte al passo indietro di Bruxelles che, dopo le polemiche esplose sulla stampa italiana, ha deciso di ritirare il documento che suggeriva di evitare l'uso della parola «Natale» per non offendere i non cristiani, qualcuno ha pensato che vincere una piccola battaglia volesse dire, in fondo, archiviare la pratica. Il problema però è ben più profondo e lungi dall'essere superato con una piccola marcia indietro. Ci si dovrebbe chiedere perché l'Unione Europea abbia pensato con tanta naturalezza che la strada giusta per l'inclusione fosse la cancellazione di una parola, Natale, che porta con sé un bagaglio di emozioni, storia, cultura: identità. È lo stesso motivo per cui è sembrato naturale all'azienda Benetton lanciare una capsule collection in collaborazione con il rapper Ghali che proponesse un hijab unisex: come se poi, nella realtà, l'hijab fosse indossato anche dagli uomini. Come se un indumento che può essere scelto liberamente certo, ma anche diventare mezzo di coercizione e sottomissione delle donne potesse trasformarsi in un simbolo di inclusione.
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Tutto si riconduce a quella sorta di senso di colpa che la cancel culture porta con sé: si induce l'individuo parte integrata della maggioranza a provare vergogna per la propria identità occidentale. Chi si muove in buona fede in questo campo minato, ritiene che in fondo qualche passo indietro ripaghi la minoranza di turno dalle piccole e grandi esclusioni di cui è vittima. Dimenticando che l'identità è una componente chiave di qualunque società: cancellarla significa soltanto aprire la strada a nuove identità, spesso estremiste. La società distopica che l'intellettuale francese Michel Houellebecq descrive nel suo «Sottomissione» diventa così non tanto peregrina: una società occidentale, francese nella specie, dove i progressisti si alleano con il partito islamico per impedire la vittoria di una destra estremista. L'effetto è quello di una parziale islamizzazione del Paese, dove a rimetterci in diritti e libertà sono, stranamente, le donne. Non a caso proprio in Francia, dove la comunità islamica si fa sentire prepotentemente e dove la mollezza dei progressisti ha toccato vette grottesche, come nel caso della giovane Mila, minacciata di morte e sotto scorta per aver offeso l'Islam, incolpata dai socialisti che, come Ségolène Royal, la definiscono «maleducata», nel silenzio delle femministe, il partito di Emmanuel Macron cavalca una battaglia identitaria profonda. Lo fa quando viene decapitato dagli islamisti Samuel Paty, l'insegnante ucciso per aver mostrato le vignette raffiguranti Maometto durante una lezione sulla libertà di espressione, ma lo fa anche nei confronti della campagna pubblicitaria di Benetton. Dietro, non vi è solo la necessità di arginare l'avanzata dei sovranisti Le Pen e Zemmour, ma la piena comprensione del fatto che proteggere l'equilibrio delle democrazie liberali passi necessariamente per la difesa dell'identità europea: che è, piaccia o meno, illuminista, greca, romana, cristiana.
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È rafforzando questa componente identitaria e non cercando di nasconderla come un peccato originale, che si legittimano e garantiscono i diritti delle minoranze. È la democrazia liberale infatti l'unico modello dove esse sono destinatarie di una maggiore protezione. E questo sistema, se pur imperfetto, ha le sue radici più profonde nello sforzo pagato con il sangue degli europei per il raggiungimento della libertà. Una libertà che rischia di essere compromessa dalla ridicola cultura della cancellazione su cui è necessario accendere un faro al più presto, prima che diventi la normalità.
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